Giovedì 5 febbraio il presidente russo Putin ha firmato un decreto che ordina la mobilitazione dei riservisti dell’esercito per un periodo di tempo di due mesi. A dare la notizia è stata la Tass, l’agenzia di informazione russa, che si poggia su fonti giuridico-legali del Cremlino.
Si tratterebbe di una procedura rituale. Ma agli osservatori internazionali non è sfuggito che l’emanazione del decreto è quasi contemporanea alla decisione della Nato di consolidare il “sistema di difesa collettiva” nell’Europa orientale: tradotto in termini concreti, si tratta in sostanza di un incremento delle unità che compongono la forza di risposta Nato (Nrf) proprio nell’area della crisi russo-ucraina. Complessivamente da tredicimila i soldati passerebbero a trentamila, e almeno cinquemila di essi andrebbero a costituire una forza speciale di intervento rapido (sparehead). Ma non basta: nella zona, a coordinamento di questa rinforzata presenza militare, verranno aperte ben sei nuove basi di comando, e un centro di addestramento a Tbilisi, in Georgia.
E questa di sicuro non è prassi: a sentire il segretario generale della Nato, Jeans Stoltenberg, si tratterebbe piuttosto del più importante rafforzamento della difesa collettiva dell’Alleanza Atlantica dalla fine della guerra fredda.
Intanto il governo di Kiev è in trattative con gli Stati Uniti per un sostegno materiale, sotto forma di rifornimento di armi, nella guerra contro i ribelli filorussi. “Le armi date dagli Usa all’Ucraina potrebbero essere armi letali”, avrebbe commentato Putin in un colloquio con Angela Merkel e François Hollande, volati d’urgenza il 6 febbraio prima a Kiev e poi a Mosca per l’ennesimo tentativo targato Ue di cercare uno sbocco diplomatico alla crisi ucraino-russa.