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Giro d’Italia, Froome fa il pirata

Il campione Sky arpiona la corsa nell’ultimo week end

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Il grande putsch keniano.

Il Giro d’Italia andato in archivio poco più di una settimana fa potrebbe essere ricordato con una definizione del genere. Il copione sembra più o meno simile a quello di due anni fa: nel 2016 (Can)Nibali si prese il giro un giorno prima della passerella finale. Oggi festeggiamo l’impresa di un altro cannibale, quello del Tour de France, Chris Froome, che ha messo finalmente le mani anche sulla corsa rosa, a sole settantadue ore dalla sua conclusione. Rovesciando letteralmente dal trono quello che, a quel punto ormai, sembrava il trionfatore per diritto acquisito. Parliamo del povero Simon Philip Yates, fratello d’arte che dopo aver disputato un giro monumentale, con tre vittorie di tappa pesanti e una maglia rosa indossata senza interruzioni per ben 13 giornate, è naufragato nella diciannovesima e terz’ultima tappa, la Venaria Reale-Bardonecchia.

Una Caporetto, che lo ha visto precipitare dal primo al diciottesimo posto in classifica. Questo è il brutto del ciclismo, o il bello a seconda dei punti di vista: che si può scivolare dal vertice alla zona anonima della graduatoria nell’arco di una giornata, quando invece nel calcio ci vuole almeno una serie negativa di tre-quattro gare. Che dire di Froome, invece? A 82 km dall’arrivo, l’uomo di punta della Sky si faceva prestare da Mercurio le ali per le sue ruote e, ritrovato il passo da dominatore, non si faceva più riprendere da nessuno.

Probabilmente, per l’inglesino della Mitchelton Scott,  sottovalutare l’evidentissimo campanello d’allarme scattato il 19 maggio è stato la vera anticamera della rovina. Era la quattordicesima tappa, e Froome, proprio lui, la fece sua: e non si trattava di una frazione qualsiasi, era anzi una delle più dure, con traguardo allo Zoncolan. Dato per morto, se non altro perché all’alba del giro aveva rimediato una caduta maldestra, e poi all’ottava giornata aveva fatto anche il bis, sembrava che il keniano, a quel punto della competizione, con Yates che spadroneggiava in largo e in largo, si concedesse una vittoria di lusso per riemergere un po’ e cercare quantomeno di riavvicinarsi alla zona della classifica che più conta. Il giorno seguente, poi, la nuova, convincente vittoria di tappa del corridore di Bury nella Tolmezzo-Sappara faceva pensare a quasi tutti gli analisti che, semmai il ritorno in scena di Froome avesse potuto costituire un pericolo, la maglia rosa l’aveva prontamente riassorbito.

Dominare una corsa, però, non significa averla uccisa se, dopo un trend roseo in tinta con la maglia dei successi, nel giorno decisivo non si riesce a chiudere i conti. E così l’impresa di Froome, mentre tutta l’attenzione era concentrata sul dualismo Yates-Dumoulin,  dimostra una volta di più che, soprattutto nel ciclismo, non esistono vincitori predestinati, ma la vittoria bisogna cercarsela fugando le attese, e sfruttando la protezione di quella dea Sorpresa che, spesso, è più efficace del favore della Fortuna.

A ben guardare, però, se c’era una predestinazione, forse era proprio quella di Froome. In un giro partito (guarda caso) da Gerusalemme, il Fato ha voluto che il suo cammino iniziasse come una passione. E, per la migliore tradizione iesolimitana, ad una grande passione corrisponde una ben più gloriosa resurrezione.

Considerazione conclusiva: la Gran Bretagna ha comunque vinto il giro. Non ha vinto la madrepatria ma, grazie a Froome, a trionfare è stata una parte del suo ex impero coloniale. Alla fine, quindi, la maglia rosa resta nell’ambito del Commonwealth: e se la regina è contenta, può farsene una ragione anche Yates, da buon atleta-patriota.

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