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Italia, Mattarella XII presidente della Repubblica

Eletto al quarto scrutinio

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Ha legato il suo nome alla legge elettorale che, nel 1993, coniugava maggioritario e proporzionale e mandava in pensione il proporzionale puro, che aveva accompagnato la storia della Repubblica dal 1946. Ma anche alla riforma della scuola elementare con cui finiva l’era del maestro unico e venivano introdotti i moduli. Senza contare che si trovò, da ministro della Difesa, a gestire in prima persona un pericoloso conflitto quasi alle porte della penisola, quello in Kosovo. Sono queste alcune delle credenziali che accompagneranno nel suo settennato al Quirinale Sergio Mattarella, fino a ieri giudice costituzionale (era stato nominato a tale carica nel 2011), uno dei padri del Partito popolare (lo sbocco della sinistra DC). In cima al colle si resta al sud: ad un meridionale “anomalo” eletto al quarto scrutinio (parliamo del primo mandato di Napolitano)  ne succede  un altro acclamato dopo un identico numero di votazioni (665 voti su un quorum a 505, sabato 31 gennaio): da un napoletano British style si passa ad un sobrio giurisperito di Palermo. Un settantaquattrenne ex professore di Diritto parlamentare, da sempre personalità di spessore ma poco o per nulla appariscente: da sempre trincerato in un intimo, signorile riserbo sui lutti familiari remoti (la morte, tragica, del fratello Piersanti, vittima della mafia) e su quelli recenti (la dolorosa perdita della moglie, che lo ha reso vedovo nel 2012). Proprio lui, così attaccato alla famiglia, colpito in modo così duro su questo fronte affettivo: per colmare il vuoto della perdita del fratello, “adottò” i suoi figli che già vivevano nello stesso palazzo dove abitava lui con i propri, in via della Libertà a Palermo; e per spazzare le scorie del dolore per la scomparsa della consorte Marisa Chiazzese, ha venduto la casa di Roma in via della Mercede che aveva preso in affitto con lei e si è ritirato a vivere in una “celletta ” di soli cinquanta metri quadrati nei locali della Foresteria della Consulta.
Dicono che la permanenza al Quirinale cambi il carattere di colui che il parlamento chiama a risiedervi: pochissime personalità sono rimaste se stesse. Enrico De Nicola fu un uomo dalla proverbiale onestà e parsimonia. Non volle mai risiedere al Quirinale durante il suo breve mandato di presidente, preferendogli Palazzo Giustiniani. Dicono tenesse un’agendina in cui andava abbozzando i principi dell’arte di fare il presidente. Pertini interpretò il ruolo di presidente con la stessa veemenza e generosità di quando era partigiano: proprio per questo fu il più amato e il più popolare dei presidenti. Era stato uno dei principali protagonisti della guerra di liberazione dai nazifascisti e il vero artefice della condanna a morte di Mussolini: ultraottantenne, aveva conservato la stessa energia leonina di quei giorni, e fu costretto a spenderla quasi sempre per sdegnarsi di fronte ad una impressionante concatenazione di catastrofi e fatti di sangue. Come De Nicola, si mantenne sostanzialmente lontano dal Quirinale. A metà del suo mandato confermò le previsioni di coloro che sospettavano che, da socialista, avrebbe fatto da traino alla salita dei socialisti al governo. Se Pertini si pose praticamente come il grande amico per le ambizioni di governo del suo partito,  Scalfaro fu invece colui che si costruì il grande nemico, Berlusconi.  Per Einaudi il profilo politico-presidenziale non si può scindere da quello di economista: fu senz’altro il più tecnico dei massimi garanti della Repubblica, e sulla sua scia si pose Ciampi, che però si mostrò anche sorprendentemente capace di aperture patriottiche di tipo quasi risorgimentale. Cossiga, subito dopo Pertini, rappresentò il ritorno ad una presidenza dai toni bilanciati dopo quella autorevole-carismatica di Pertini, ma sorprese tutti anticipando la chiusura del suo mandato non perché, come Leone, fosse in odore di impeachment, o perché malato come Segni ma proprio in aperto contrasto col sistema dei partiti, di cui evidentemente presentiva lo sgretolamento. A Gronchi si devono l’istituzione della Corte costituzionale, il varo del primo “governo del presidente” e  anche i primi viaggi presidenziali all’estero. La presidenza di Segni si lega anche al mistero del tentato golpe del 1964, quella di Saragat vide la luce dopo ben ventuno scrutini. Napolitano da ultimo portò al Quirinale quello spirito di fedeltà alle istituzioni che era stato anche lo spirito di fedeltà al suo partito e alla sua disciplina interna. Che carattere avrà la presidenza Mattarella, quale sarà la metamorfosi del “Sergio dallo sfuggente sguardo”? Alcuni già lo paragonano a Scalfaro, per il fatto che, come l’ex capo dello Stato, ai tempi in cui era un giovane magistrato, si sentì in dovere di riprendere una signora che sfoggiava abiti troppo succinti, così Mattarella nel luglio del 1990, da ministro dell’Istruzione, usò parole di aperta condanna morale nei confronti della rockstar Madonna che stava per sbarcare in Italia per un giro di concerti. Di sicuro, però, se il nuovo presidente, all’improvviso, deciderà di deporre la sua apparente morbidezza e di sfoderare il polso non sarà un sorpresa assoluta: tutti ricordano come, politicamente, da segretario della Dc in Sicilia, egli reagì alla morte del fratello Piersanti portando avanti, col guanto di ferro, la bonifica della Dc regionale da personalità in odore di mafia ma protette perché in rapporti con l’ex sindaco di Palermo, Ciancimino, e il luogotenente andreottiano Salvo Lima; e poi sostenendo l’insediamento di una nuova giunta comunale nel capoluogo guidata da Leoluca Orlando, già collaboratore di Piersanti alla Regione. Un’altra “medaglia” che in genere gli si appunta al petto sono le sue dimissioni da membro del governo, all’indomani della decisione di porre la fiducia sulla legge Mammì - parliamo sempre dell’epoca in cui reggeva il dicastero della Pubblica Istruzione, VI gabinetto Andreotti -: in disaccordo con un atto legislativo che, agendo in nome di un’offerta televisiva pluralista, conforme alle norme europee, finiva in sostanza per favorire e in modo preponderante il gruppo Fininvest, decisero di abbandonare l’esecutivo Mino Martinazzoli, ministro della Difesa, Riccardo Misasi, ministro per il Mezzogiorno, Calogero Mannino, titolare del dicastero dell’agricoltura, Carlo Francanzani, ministro delle Partecipazioni statali e, appunto, Sergio Mattarella. Era il 27 luglio 1990. Qualche giorno dopo, il 1° agosto, la fiducia a quella legge sarebbe stata comunque approvata a voto segreto.

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