Doveva essere la rivoluzione (costituzionale) di ottobre.
Adesso, alla luce dei ripensamenti del governo, la data del referendum di tutti i referendum, quello per la riforma dello statuto repubblicano, rischia di slittare in tardo autunno per non dire alle porte dell’inverno, anzi quasi certamente sarà così: finirà per celebrarsi molto al di là delle rituali celebrazioni per la vittoria di Vittorio Veneto, e c’è da scommettere che, quando gli italiani andranno alle urne per decidere o meno della fine del bicameralismo perfetto già sapremo se alla Casa Bianca si sarà insediata Hillary Clinton piuttosto che Donald Trump. Le nuove date scelte per la consultazione sono infatti 27 novembre – piano A – e 4 (ma anche 5) dicembre – piano B –: eppure nulla vieta di sospettare che all’ultimo momento possa anche spuntare un piano C o un piano D, e rimandare tutta la questione – con correlato carrozzone di contrapposizioni politologiche – al prossimo anno, il 2017. Se, infatti, la questione del referendum costituzionale è senz’altro urgente, ad essa si accoppiano altre questioni, altrettanto urgenti. C’è comunque da dire che, qualunque debba essere l’esito del referendum, per Renzi e il suo governo non sarà la fine: almeno ufficialmente, infatti, lo scenario delle dimissioni immediate in caso di fallimento appare ormai scongiurato.
Giorgio Napolitano
REFERENDUM E LEGGE ELETTORALE. In una recente intervista a Repubblica (10 settembre) l’ex capo dello Stato Giorgio Napolitano, attivo sostenitore del sì alla riforma costituzionale, espresso il suo plauso per la depersonalizzazione dell’esito del referendum operata da Renzi, ha però ammonito il premier a non tergiversare sul lavoro di necessaria revisione dell’Italicum, in modo da venire incontro ai desiderata della minoranza Pd: quest'ultima, avuta soddisfazione sul terreno della legge elettorale, potrebbe deporre le armi su quello del referendum. E dare un contributo di valore determinante. “Indipendentemente” ha detto l’ex inquilino del Quirinale “dal pronunciamento della Corte Costituzionale sulla legge”, pronunciamento che è atteso per il 4 ottobre, “è opportuna una ricognizione nei tempi più brevi tra le forze parlamentari per capire quale possa essere il terreno di incontro per apportare modifiche al testo.” Com’è noto, la corrente bersaniana del Partito democratico nei giorni scorsi ha presentato una proposta – nota come Mattarellum 2.0 o Bersanellum – che corregge in senso parzialmente uninonimale il sistema proporzionale che verrebbe ad essere imbastito con l’entrata in vigore a tutti gli effetti dell’Italicum.
Per come è oggi, infatti, la legge elettorale prevede uno sbarramento al 3% e l'assegnazione di un premio di maggioranza (340 seggi su 630) alla lista che supera il 40%. Se invece nessuno va oltre il 40%, si svolge un secondo turno tra i due partiti più votati, proprio per assegnare il premio di maggioranza. Inoltre, nei 100 collegi in cui si vota il capolista è bloccato, mentre per gli altri candidati valgono le preferenze. I bersaniani, vorrebbero, al contrario, che 475 deputati venissero eletti in collegi uninominali a turno unico, mentre altri 143 seggi fossero assegnati nel seguente modo: 90 come "premio di governabilità" alla prima lista o coalizione, con un limite massimo di 350 deputati; 30 alla seconda lista o coalizione; 23 divisi tra i partiti che superano il 2% e hanno meno di 20 eletti.
Sul tappeto ci sono già delle proposte di compromesso: una di esse è la riesumazione della vecchia legge elettorale per le Province, che manterrebbe il ballottaggio e il premio di maggioranza alla lista, in sostanza i due capisaldi dell'Italicum. L’elemento nuovo rispetto a quest’ultimo sarebbe però il collegio uninominale al posto delle preferenze: ogni partito disporrebbe perciò di un solo candidato in ogni collegio. Qualora nessuno di essi raggiungesse una soglia che può essere posta tra il 40% e il 50% determinante, per decidere il vincitore, sarebbe il ballottaggio.
Marcello Pera
SI ALLARGA IL FRONTE DEL SI’. È notizia senz’altro rimarchevole l’endorsement dell’ambasciatore Usa in Italia, John Phillips, a favore della vittoria della riforma costituzionale. “La vittoria del no al referendum sarebbe un passo indietro per attrarre investimenti stranieri in Italia”, ha dichiarato l’ambasciatore nel corso di un convegno di analisi degli effetti della Brexit sulle relazioni transatlantiche, tenutosi a Roma martedì 13 settembre. “Sessantatré governi in 63 anni non danno garanzie. La riforma costituzionale offre al contrario una speranza di stabilità di governo”, ha osservato Phillips, ed è proprio questa “garanzia di stabilità”, a suo parere, l’aspetto più importante di una svolta irrinunciabile.
Ma forse è ancora più rimarchevole il fatto che un consistente pezzo del centro-dstra sia stato conquistato alla causa del sì del referendum. E non parliamo di una frangia minoritaria, ma di una corrente di spessore che può vantare capifila come Marcello Pera (presidente del Senato nella legislatura in carica dal 2001 al 2006) e Giuliano Urbani (uno dei padri di Forza Italia). Il 13 settembre, al Grand Hotel de la Minerve, in piazza della Minerva a Roma, Pera e Urbani hanno lanciato un appello agli elettori del centro-destra affinché nel voto referendario prevalga “la testa sulla pancia” e possa andare in porto quella riforma costituzione che, essi dicono, è “da sempre nel dna del berlusconismo” (si ricorderà che una riforma molto simile della Costituzione era stata già elaborata dal governo Berlusconi, ed era stata poi bocciata alle urne nel giugno 2006).
La corrente urbaniano-periana ha scelto di denominarsi Liberi Sì e nelle prossime settimane si doterà di un sito web e d una rete di comitati affiliati in tutta la penisola. Liberi Sì è l’ultimo arrivato nel già nutrito campo dei pro-riforma: in esso c’è naturalmente il governo e la maggioranza Pd, i filo-renziani della società civile, dell’intellighenzia, dell’informazione e dei media; quindi vi si trovano i verdiniani di Ala (Allenza liberal-popolare), Scelta Civica inclusi gli zanettiani che hanno abbandonato da poco la casa madre, il Nuovo Centro Destra, gli ex leghisti di Fare! (il cui leader è Flavio Tosi) e la corrente casiniana dell’Udc.
Massimo D'Alema
CHI RESTA ANCORATO SUL NO. Ad essere contrari alla riforma rimangono il resto di Forza Italia e della Lega Nord, il Movimento Cinque Stelle e l’altra corrente dell’Udc, quella che fa capo a Lorenzo Cesa. Della minoranza del Pd si è detto: blandi – e attendisti, in attesa di novità sul fronte dell’Italicum – i bersaniani, molto più agguerriti i dalemiani. L’ex presidente del Consiglio, falco dell’opposizione a Renzi interna al partito, ha già pronti per il varo i suoi Comitati per il no, destinati ad allinearsi agli altri comitati anti-riforma, di varia estrazione politica, già disseminati in tutto il patrio territorio.
Nicola Piepoli
GLI ULTIMI SONDAGGI. Nonostante il fronte del Sì sia in crescita, le intenzioni di voto dei comuni cittadini, stando alle ultime rilevazioni, sembrerebbero andare in senso contrario. All’inizio del mese l’istituto Piepoli avvertiva che il “no” era in vantaggio, seppur di misura, rispetto al “sì” (50% l’uno, 49% l’altro). Tuttavia nelle ultime ore la forbice tra i “no” e i “sì” si è allargata di ben otto punti: stando, infatti, ad un sondaggio riservato approdato al tavolo di palazzo Chigi e di cui ha dato conto il sito Affaritaliani, gli anti-riforma sarebbero al 54%, i pro al 46%. E se questi numeri dovessero diventare realtà – così si ragiona nell’entourage del premier - appare sin da subito quantomai necessario prefigurarsi una strategia di presa d’atto della sconfitta, per arrivare magari a farsi affidare un secondo mandato governativo, perlomeno di scopo, fino alle elezioni del 2018.