“Non siamo più negli anni ‘90”. “Tu non sei un attore, sei solo una celebrità”.
Quando le vicende di un personaggio scorrono parallelamente a quelle dell’attore che lo interpreta: in effetti, Riggan Thompson sembra proprio il gemello impossibile di Michael Keaton, attore che, dopo i fasti del primo Batman (ve lo ricordate? Jack Nicholson era il suo antagonista) e di Cronisti d’assalto, dalla seconda metà dei ’90 sembrava aver imboccato una parabola discendente (l’ultimo titolo veramente degno di nota della sua filmografia, prima del film di cui parliamo, è un Jackie Brown del “lontano” 1998) .
In Birdman, il film di Alejandro Iñarritu vincitore di quattro Oscar, quella stessa parabola si trova a viverla Riggan, popolare al cinema almeno quanto Christopher Reeve negli anni immediatamente successivi alla caduta del muro di Berlino, ma poi, per il cambiamento di clima nel mercato cinematografico, costretto a riporre dentro l’armadio il costume da uomo-uccello e a ripiegare sul teatro, oltretutto quello impegnato. Da supereroe che sfreccia sulla scena come un missile a personaggio drammatico di un lavoro di Raymond Carver a Broadway: alle prese con un tradimento coniugale.
Rifarsi una vita artistica cimentandosi su un terreno completamente diverso da quello in cui si era guadagnata la fama. Discorso antitetico a quello dei Ragazzi irresistibili, un classico del 1982 al centro del quale vi sono due pezzi da novanta dell’avanspettacolo che, ormai caduti nel dimenticatoio, devono dimostrare di non essere per nulla arrugginiti e magari saper fare le scarpe alle nuove generazioni.
Per Riggan si tratta di passare dalla pellicola alle tavole di un palcoscenico. Il paragone con molti ex big dello spettacolo anche di casa nostra è immediato, e il nostro personaggio appare come una sorta di sintesi universale di quella figura di star che vorrebbe lasciarsi alle spalle un passato di lustrini e successo “senza sostanza” per provare a dare una “svolta di spessore” alla sua carriera. Per tanti motivi: perché il genere in cui era idolo indiscusso non tira più al botteghino, perché non ha più l’età per fare il supereroe, perché vuole dimostrare alle persone che gli hanno sempre rimproverato di essere, come si diceva, più celebre che bravo, di avere altre ali con cui volare, oltre a quelle di Birdman. Perché vorrebbe maledire quel personaggio che l’ha costretto a trascurare la famiglia, e in primis la figlia con problemi di tossicodipendenza, e riuscire a trovare un “successo della maturità” in grado di conciliare ambizioni e responsabilità.
Eppure il passato è duro a morire: del cast che ha messo in piedi per il suo spettacolo carveriano Thompson continua ad essere il volto indiscutibilmente più conosciuto, e non certo per le cose che tenta di proporre a sipario spalancato. Se gli chiedono un autografo, se lo avvicinano per una foto-ricordo, se lo riconoscono per strada è perché lui è ancora e sempre “quello che ha fatto Birdman”. Ma ciò che lo ferisce davvero nel profondo, ancora più delle parole di dura condanna della figlia Sam (Emma Stone), è che gli altri attori, in primis quel Mike Shiner (Edward Norton) che, dall’alto di chissà quale curriculum, crede di essere migliore di lui, si sentono autorizzati a dargli lezioni di attorialità. Per non parlare dei critici. Munito di un incrollabile amor proprio, che nei momenti di intimità con se stesso si manifesta nell’apparizione di Birdman, ad un tempo angelo custode e cattivo genio di Riggan, l’attore va avanti, battagliero fuori e devastato dentro.
Di replica in replica, il flop delle anteprime del suo spettacolo si ripete puntuale ogni sera: colpa delle frizioni all’interno del cast, probabilmente colpa del fatto che al nocchiero, Riggan, non è riconosciuta la necessaria autorevolezza (questo si riflette anche nelle lamentele ripetute sulle inadeguatezze dell’attrezzatura). Dunque, che fare? Gettare la pugna, tornare indietro, o magari ritirarsi, vivere di nostalgia annegata nell’alcool? Riggan riflette. E poi conclude che, prima di rinnegare definitivamente Birdman, deve provare a riprendere la rotta facendosi ispirare, per l’ultima volta, dalle regole di un buon pop corn movie: l’effetto stupefacente.
Ma il buon Riggan, impulsivo (e disperato) com’è, si spinge assai oltre: dopo che quella serpe di Shiner gli fa capire che sul palco, con quella pistola giocattolo, non è affatto credibile come marito geloso aspirante omicida, non ci pensa molto a procurarsi una pistola vera. Il bello è che, alla fine della scena-madre, è previsto che Riggan debba puntare la pistola contro la sua stessa tempia. Pistola vera, veramente carica: fatale inaccortezza o rischio calcolato? L’attore finisce in ospedale, in serissimo pericolo di vita. Il pubblico se la beve, e pensa che il realismo sia dovuto alla tempra drammatica di un inaspettato Thompson. Ovazione in platea, lo spettacolo è finalmente un trionfo. Per Riggan è una doppia affermazione: perché, grazie al cielo, se la cava e non muore, ma soprattutto perché dimostra a se stesso e ai suoi colleghi che, alla fine, persino al pubblico colto del teatro ciò che interessa è la genialata pirotecnica, il colpo a sensazione.
Il destino non vuole che egli diventi un martire della fede negli effetti speciali portati all’esasperazione realistica: e può così riaprire gli occhi sul mondo, e godersi una vittoria che per lui ha le ali grigio piumate di un giustiziere che solca i cieli come un’aquila a razzo.

