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Il giovane favoloso, la vita di Leopardi sul grande schermo

Elio Germano dà il volto al “poeta del pessimismo”

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Si sbaglia chi dice che il primo vero ammiratore Giacomo Leopardi lo trovò dopo la morte, nel critico Francesco De Sanctis. Il gracile e deforme vate (Elio Germano), pur circondato dalla diffidenza del pubblico e dell’intellighenzia per il pensiero pessimista e la visione infelice della vita (“Nel ‘900 di lui non resterà neanche la gobba”, chiosò acido Tommaseo su di lui), già da vivo ebbe in realtà tre grandissimi sostenitori: Pietro Giordani, Antonio Ranieri e… la sorella di Ranieri, Paolina. Pietro Giordani (Valerio Binasco) è il secondo padre, conosciuto attraverso un intenso e appassionato carteggio; è lui che lo aiuta ad uscire fuori dalla gabbia di Recanati, “natio borgo selvaggio” dove non vi è altro svago dello “studio matto e disperatissimo”, e dalla reclusione della casa-biblioteca paterna, che pure resta nella vita del poeta il mondo culturale di riferimento (se non altro dal punto di vista dei contenuti eruditi). Antonio Ranieri (Michele Riondino) è l’amico fraterno (quasi un secondo fratello) che lo porta a Napoli, la terra gioiosa dove le persone vivono nel sole e nella natura e dove, tra gelati (la grande passione di Leopardi, come i dolci in genere) e allegre combriccole notturne, in cui si lascia coinvolgere soccombendo alla vitalità dell’ambiente, riesce a trascorrere, forse, l’unico momento davvero lieto della sua esistenza, dimenticando la pesantezza depressiva di Firenze, che gli ha procurato delusioni su delusioni. Paolina Ranieri (Federica De Cola), sorella di Antonio, è la fedele custode della salute di Giacomo e dei suoi scritti, forse l’unica donna che abbia provato per lui un coinvolgimento affettivo vero, oltre alla reale sorella del poeta (Isabella Ragonese), per una strana coincidenza omonima di quella di Antonio.
Questa è la riprova che, per quanto possa essere incompreso dai suoi contemporanei, il vero genio trova sempre qualche intenditore che, in anticipo sui tempi, ne fiuta la grandezza ed è disposto a venerarlo. Cosa non avrebbe fatto, Giordani, per il suo Leopardi: dopo averlo strappato al nido del padre-padrone, il conte Monaldo (Massimo Popolizio), e della madre-badessa, Adelaide Antici (Raffaella Giordano), fa di tutto per lanciarlo sulla grande ribalta letteraria, a Firenze, nell’ esclusivissimo salotto di Viesseux, e fino alla fine lo sostiene affinché le sue Operette morali trovino la giusta consacrazione nel circuito dei premi destinati ai grandi della prosa e della poesia. E anche dopo che Carlo Botta, nel parere dei giurati, trionfa definitivamente sulla prova saggistica del poeta, Giordani non smette mai di dargli il suo appoggio, materiale e motivazionale. E Ranieri, poi, cosa non avrebbe fatto per l’amato Giacomo? A Firenze lo fa coabitare in affitto e poi a Napoli lo ospita come fosse un congiunto, ne  rispetta senza mai lamentarsi i bioritmi quotidiani dovuti alla delicata salute, ed è costantemente vigile su di essa, tanto da farlo prendere in cura dal miglior medico sulla piazza, quello personale del Re. Il dottore  ordina al poeta un’alimentazione più varia e maggiore movimento, e Ranieri, constatando che l’idolo-amico a trentotto anni è ancora vergine, e desidererebbe almeno una volta andare con una donna, con grande amorevolezza gli paga una prostituta, raccomandando però all’”accompagnatrice” di trattare il cliente con la massima delicatezza. E che dire, poi, dei giorni bui in cui l’epidemia di colera ora dopo ora si diffondeva nella città partenopea: più solerte di un Enea nei confronti del suo Anchise, Ranieri, a costo della sua stessa incolumità, si carica tra le sue braccia il suo poeta cambiando residenza di quartiere in quartiere, per sfuggire al morbo. Fino ad arrivare al buen retiro di Torre del Greco, alle falde del Vesuvio. Dove Leopardi ha finalmente la possibilità di vedere all’opera, sotto forma di eruzione vulcanica,  quella potenza distruttrice (“matrigna”) della Natura che era sempre stata al centro delle sue speculazioni.
Tutto questo senza dimenticare Paolina Ranieri, a cui, per interessamento di Antonio e per suo spontaneo zelo, si deve la trascrizione fedele, appassionata, di quasi tutti gli scritti di Giacomo. È lei a convincere (magari fatalmente) Leopardi a restare a Napoli quando questi vorrebbe, alfine, tornare a Recanati. Ed è sempre al fianco di Antonio, quand’egli è al fianco del poeta nei lunghi momenti di malinconia e di tormento (anche e soprattutto fisico) e in quei pochi di gaia leggerezza. 
Sì, tutto sommato probabilmente possiamo dirlo: Giacomo si sentiva più infelice di quanto realmente non fosse. Ed era proprio questo che i suoi contemporanei gli rimproveravano, criticando il suo morboso. plumbeo pessimismo. Essi osservavano che tranne, magari, che nella costituzione fisica, a conti fatti egli fu fortunato in tutto. A cominciare dalla famiglia di nascita: bene in vista, facoltosa, importante, forse la più importante di Recanati. Nonostante le inevitabili diversità di vedute che si sarebbero manifestate col tempo, nell’adolescenza e nella giovinezza, quale ragazzo di talento come Giacomo, a quei tempi, non avrebbe firmato per crescere in una famiglia così? Alla sua voglia di ribellismo (interpretiamo sempre il punto di vista dell’epoca) il denaro di famiglia avrebbe sempre dato sfogo, fino all’inevitabile riflusso e al ritorno da “figliol prodigo benestante”; e se pure il suo carattere snob lo avesse spinto a giocare a fare il misantropo, di sicuro, se soltanto avesse avuto voglia di contatti anche ad alti livelli, la possibilità non gli sarebbe mai mancata. Il padre, il conte Monaldo, era un intellettuale rifinito e un uomo politico di riferimento, a livello regionale, nel partito dei reazionari. Aveva sposato una donna, la marchesa Adelaide, di una religiosità dura e intransigente, ma per i figli più simile ad una governante che ad una madre. Nella misura in cui ella si mostrava severa nel far rispettare le regole della casa e, allo stesso tempo, sostanzialmente indifferente  alle reali sorti dei figli, il padre, invece, ne era geloso, e pretendeva il massimo da loro. Lo studio “matto”, serrato, quasi monastico, era lo stesso che il conte Monaldo, genitore e precettore inflessibile, imponeva anche agli altri figli, Carlo, il secondogenito (Edoardo Natoli), e l’ultima nata, Paolina. Solo che Giacomo, il primogenito, per cui Monaldo, probabilmente, vagheggiava prospettive di maggiore responsabilità, data la particolare sensibilità e predisposizione fisica, ne risentì di più. Monaldo, certo, voleva dei figli dotti, ma non fino al punto di fare della letteratura e della filosofia la loro ragione di esistere: dando invece a Giacomo quegli strumenti, non poté impedire che diventassero il suo alimento per la vita. Di cui egli finì col non potersi mai saziare, anche a costo della salute. Fu questo il primo vero punto di contrasto tra lui e il padre, e la prima tragedia interiore per Giacomo.  I progressi enormi, abnormi, che questi faceva nello studio, uniti alla definizione del suo carattere, timido, sensibilissimo, malinconico, rivelavano il “mostro”: non sarebbe mai diventato un intellettuale impegnato nel concreto, come Monaldo, perché il suo animo sembrava piuttosto volgersi all’arte delle lettere, e come artista, sarebbe stato accecato, e limitato, dal suo temperamento artistico. A un certo punto, interrogandosi sul futuro di un figlio dalla mente così prodigiosa e dal corpo così gracile (cominciavano a manifestarsi i primi segni della gobba), Monaldo pensò se non fosse stato il caso di farne un ecclesiastico, anche per salvarlo dal mondo e dal pericolo che entrasse in contatto con idee politiche diverse da quelle di famiglia. È da qui che nasce la sua ostilità al carteggio di Giacomo con Pietro Giordani, il secondo punto di contrasto; ed è da questo punto che si può cominciare a considerare Il giovane favoloso come una sorta di episodio aggiuntivo di Noi credevamo, altra opera “ottocentesca” di Mario Martone. In sostanza Monaldo teme che nella sempre più irrefrenabile voglia di evadere da Recanati manifestata da Giacomo possa nascondersi qualche anelito libertario recepito e covato in modo clandestino. La possibilità, cioè, che avesse sposato nascostamente da lui una qualche coscienza politica, capace di renderlo un Leopardi rinnegato. Il tentativo di fuga sventato e la resa dei conti successiva sono il punto di rottura finale col padre. Eppure, ciò che fuori da Recanati i detrattori di Leopardi gli rimprovereranno sarà poi esattamente il contrario: di proporre, cioè,  un lirismo e una riflessione filosofica tetri, sostenuti da una formazione intellettuale e culturale antiquata, erudita, “provinciale”, del tutto avulsa da qualsiasi impegno politico e sociale. Lontana dall’esigenza ottimistica del secolo, quindi fuori dal tempo, e assolutamente non spendibile ai fini della causa risorgimentale a cui la grande arte e la grande letteratura stavano contribuendo. A questa visione del “disimpegno lugubre” leopardiano si sarebbe opposto decisamente De Sanctis, osservando come la produzione di Leopardi, al contrario, palpiti di vita e partecipi profondamente degli impulsi ideali e storici della sua epoca, ma da un osservatorio remoto, isolato. “Nel momento stesso in cui disprezza la libertà, l’amore, il progresso, Leopardi te li fa amare”. Forse perché, in effetti, il vero scopo di Giacomo, nel voler uscire da Recanati, lungi dal voler fare il rivoluzionario, era solo quello di viverlo, quel maledetto mondo, di farne parte; di soddisfare la sua voglia ardente di avere contatti, di farsi conoscere, di farsi apprezzare, capire, e non per forza di ottenere la gloria. Di uscire da quella barriera di solitudine e di depressione che era diventata Recanati, specie dopo che, all’improvviso, un’infezione si era portata via quella sua vicina di casa tanto carina, la prima che avesse mai turbato il cuore del giovane poeta (potrebbe essere la Silvia del futuro componimento?). Già allora, nei confronti di quella leggiadra fanciulla, Leopardi si sentiva inadeguato; col tempo la situazione sarebbe peggiorata, e all’inadeguatezza avrebbe fatto compagnia un senso di auto-repulsione che, naturalmente, aveva come conseguenza quella di invitare alla repulsione la donna di fronte a lui: vedi Fanny Targioni-Tozzetti, anche se, in questa sfortunata avventura, ad aggravare le cose ci si era messa anche una dolorosa, improponibile competizione col bel Ranieri. E pensare che la donna per lui, in fondo, Leopardi l’aveva a casa, a casa di Ranieri ovviamente. Trovare la donna giusta è difficile per tutti, ma per un genio ancora di più. Eppure il caro amico Antonio era riuscito a fare anche questo per Giacomo: metterlo nelle mani di Paolina, la ragazza tranquilla, devota, misticamente ammirata dalla mente del poeta, che, se soltanto fosse vissuto di più, magari avrebbe anche potuto sposare. A patto che fosse lei a dichiararsi, però, visti i limiti di Leopardi nell’approccio sentimentale: e lui, magari davanti a un bel gelato nel centro di Napoli, le avrebbe detto sì.

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