L’Italia un Paese industriale?
Non è una novità: è una realtà sotto gli occhi di tutti dagli anni ’50. L’impennata decisiva alla trasformazione strutturale dell’economia del nostro Paese si è poi avuta con gli anni del boom: industrializzazione di massa, urbanizzazione di massa, a far da corollario della prima, e, per un effetto domino, spopolamento delle campagne e diminuzione macroscopica della forza-lavoro rurale.
Comunque, seppure costretta a subire un’emorragia progressiva, e inarrestabile, di unità lavorative e soprattutto di spazi coltivabili, l’agricoltura ha continuato ad essere la “spina dorsale” di riserva della macchina produttiva italiana, grazie soprattutto alle “sacche di eccellenza” dell’ortofrutticolo del Belpaese.
Da tempo, quindi, il detto “braccia rubate all’agricoltura” sembra significare tutt’altro rispetto al suo senso corrente, popolare: vi si condensa la storia di una deportazione sistematica dai campi alle fabbriche, che, resistendo alle periodiche tendenze ideologico-salutiste del “ritorno alla terra”, continua incessantemente.
E l’Istat il 2 settembre ha certificato che nell’arco di tre anni, 2010-13, la superficie agricola utilizzata è diminuita del 3,3%, mentre quella totale del 2,4%: il confronto è con i dati dell’ultimo censimento sull’agricoltura, effettuato appunto nel 2010.
Gli spazi rurali si “assottigliano” in modo più consistente al centro (-6,3%) e subito dopo al nord (-5,7%). Seguono il sud (-3,0%), il nord-est (-1,7%) e le isole (-0,9%). Nella tabella c’è posto anche per un focus sulle coltivazioni a rischio di estinzione, per mancanza di terreni adatti ad esse ma anche di “manodopera”: è “allarme rosso” per colture ortive (-15,2%), per il frumento duro (-12,8%) e per gli alberi fruttiferi (-8,4%).