“Errore umano”. In una guerra “intelligente”.
Così Washington ha definito il bombardamento di un centro traumatologico di “Medici senza frontiere” a Kunduz, in Afghanistan, durante un raid aereo effettuato all’inizio del mese scorso. Un’auto-giustificazione, per un episodio che causò la morte di trenta persone, tra cui tre bambini malati. O una confessione di colpa, con attenuanti.
Ma la sostanza non cambia: l’aereo americano che colpì la struttura sanitaria aveva come obiettivo una base dell’intelligence afghana passata da poco tempo nelle mani dei talebani. Fatalmente, però, a causa di coordinate difettose, la missione ebbe tutt’altro esito. Estremamente distruttivo, come doveva essere, ma non secondo i programmi originali.
Subito dopo l’accaduto, l’Onu stessa fece prospettare con chiarezza la possibilità che il fatto venisse a configurarsi come un vero e proprio crimine di guerra. Da parte americana, comunque, venne subito aperta un’inchiesta in ambito militare per acclarare le effettive responsabilità e dinamiche: l’ammissione delle ultime ore ne è proprio la conclusione, la sentenza definitiva. Un epilogo tutto sommato coerente con quella che, fin dall’inizio, era stata la linea di pensiero Usa. Più oggettiva e se si vuole, “autocritica” rispetto a quella del governo afghano, che, invece, fin da subito aveva cercato di “coprire” le responsabilità degli alleati sostenendo la versione che dentro l’ospedale si erano asserragliati dei ribelli estremisti.
Invece no: fu una tragica svista nella “topografia degli obiettivi”, e neppure le regole d’ingaggio, nell’occasione, furono troppo regolamentari. Però, pur confermando l’assunto auto-assolutorio di partenza, l’esito dell’inchiesta, condotta, con grande scrupolo, da tre generali Usa estranei allo Stato maggiore Nato in Afghanistan, non ha mancato di far cadere qualche testa: tra i militari sospesi c’è anche il capo delle forze speciali a Kunduz.