Too Many Cooks. Si tratta del titolo di un episodio di Un medico in corsia, telefilm americano degli anni ’90 (il protagonista è Dick Van Dyke): una puntata, quella, che offriva uno spaccato abbastanza inequivocabile della feroce competizione che c’è nel mondo dei fornelli.
Ma non serve proiettarsi nella fiction: basta vedere i tanti talent che parlano di cucina. Molti chef, specie i più stellati, con un forcone infilzerebbero il cotechino, con l’altro il loro vicino di pentola. E spesso sotto i loro colpi vorrebbero veder cadere volentieri quell’odiata categoria dei critici gastronomici, persone che, spesso, non sanno neppure cucinarsi un uovo, eppure si arrogano il diritto di decretare la fortuna o il fallimento di questo o quel ristorante.
Chissà quanti nemici si era procurato Joshua Ozersky tra gli artisti col cappello a panettone, per via di una stroncatura o di una creazione culinaria incompresa. Sicuramente Ozersky, morto a Chicago il 4 maggio in circostanze ancora tutte da chiarire, era uno dei critici più quotati dell’ottava arte (se così vogliamo chiamare la cucina), sulla carta stampata e patinata americana. Collaborava ad Esquire, al Time, al Wall Street Journal. A Chicago si trovava in qualità di giurato per la cerimonia dei riconoscimenti dedicati alle creazioni e al giornalismo culinari, i James Beard Foundation Awards (in passato egli stesso era stato tra i premiati). Alloggiava nell’hotel Conrad, e proprio mentre si trovava nella sua stanza sembra sia venuto a mancare, improvvisamente, all’età di quarantasette anni.
Ozersky era famoso per le sue posizioni anti-vegane e per il culto di un’alimentazione a base di carne: la sua filosofia nutrizionale si può riassumere in un termine coniato proprio da lui, Meatopia, “utopia della carne”. Qualche suo iriducibile avversario potrebbe cinicamente concludere che sono state proprio i suoi principi alimentari a portarlo anzitempo alla tomba.

