Si torna a parlare di Fukushima e dell’eredità devastante di quella vicenda.
Tracce di radioattività provenienti dalla centrale nucleare giapponese, che nel marzo di quattro anni fa andò semidistrutta a causa di uno tsunami, sono state rinvenute nelle acque al largo del Canada, più o meno all’altezza della località di Ucluelet. Lo rendono noto le autorità giapponesi, a oltre un mese dall’effettuazione delle analisi.
Entrando più nel dettaglio, nel campione esaminato a febbraio da tecnici dell’università di Victoria (isola di Vancouver), si sono individuati livelli di cesio (isotopi 134 e 137) “ben al di sotto – dicono gli esperti – di quelli che potrebbero mettere a repentaglio la salute dell’uomo o dell’ambiente”.
Era previsto che, nel corso del 2015, le radiazioni di Fukushima avrebbero raggiunto le coste del Nord America dopo aver viaggiato per più di settemila chilometri. Dunque, ci si preparava al peggio: e una concentrazione radioattiva così inaspettatamente “sostenibile”, per ora, non può che essere una buona notizia. Per il Whoi, l’istituto oceanografico statunitense, “nuotare per sei ore di fila in acque dove sia presente un livello di cesio anche doppio rispetto a quello di Ucluelet, significherebbe comunque assorbire radiazioni pari ad un millesimo di quelle a cui ci si sottopone, ad esempio, per una panoramica dentale”. Certo è che l’invasione radioattiva, per così dire, potrebbe essere solo all’inizio.
Un boato all’improvviso scosse la terra; e un colosso di fuoco si alzò apocalittico in un cielo di marmo, come un soufflé partorito da una centrale impazzita. Non è la cronaca del 6 agosto 1945 a Hiroshima o del 9 agosto dello stesso anno a Nagasaki, bensì, appunto, la ricostruzione del disastro nucleare di Fukushima, datato 11 marzo del 2011. Più correttamente si dovrebbe parlare di disastro di Ōkuma:sbagliando, infatti, proprio come abbiamo fatto noi, si parla di incidente di Fukushima, come se questa città fosse stata realmente quella coinvolta; in realtà Fukushima è soltanto il capoluogo della disgraziata prefettura dell’isola di Honsū nel cui territorio si consumò la nuova tragedia nucleare nipponica, ma gli impianti protagonisti di essa appartenevano alla città di Ōkuma.
Come si ricorderà, la causa del disastro non venne dall’alto, cioè dallo sganciamento di una bomba atomica sopra la centrale, ma dalle profondità telluriche e dagli abissi del mare; un terribile terremoto, associato ad un ancor più terribile maremoto, determinò infatti il catastrofico spegnimento del sistema elettrico della centrale, che ebbe come conseguenza l’esplosione dei reattori 1 e 2 e un surriscaldamento dei reattori 3 e 4. I vasi di Pandora erano stati scoperchiati: diciottomila persone morirono nelle ore e nei giorni immediatamente successivi al disastro, e questo nonostante ai danni, con la consueta celerità nipponica, si fosse rimediato in poco tempo. Eppure, si disse da più parti, tutto avrebbe potuto essere evitato con una più attenta manutenzione preventiva della struttura: i morti e soprattutto il rilascio di migliaia di emissioni in mare, il vero incubo degli anni a venire.