Nella notte del 20 settembre è stato raggiunto a Minsk, la capitale della Bielorussia - paese amico della Russia ma neutrale nel conflitto tra Mosca e Kiev -, un accordo russo-ucraino che prevede un nuovo armistizio e la creazione di una zona demilitarizzata di trenta chilometri nella parte est dell’Ucraina. L’accordo è frutto di un lavoro serrato di colloqui, durato sette ore di fila, tra le parti costituenti il cosiddetto “Gruppo di contatto”: e cioè l’Osce, organo super partes chiamato a garantire la firma dei termini di pace, la Russia, l’Ucraina e i separatisti della Novorossiya, unione (non riconosciuta) delle autoproclamate repubbliche filorusse di Donetsk e Lugansk.
Dunque, dopo l’accordo del 5 settembre naufragato in poche ore, ci si riprova con un nuovo documento: un “memorandum”, lo ha definito tecnicamente il delegato di Kiev per la sottoscrizione dell’accordo, Leonid Kuchma, già presidente della Repubblica ucraina dal 1994 al 2005. Come a dire: una “scaletta” dei punti d’intesa che, anche visto lo stato di emergenza, non ha richiesto una negoziazione particolarmente lunga ed estenuante ed ha il vantaggio di poter essere applicata immediatamente col valore di patto di tregua. Al momento di firmare, il leader della Repubblica di Lugansk, Igor Plotnitsky, pur rammaricato dal fatto che al tavolo delle trattative non si era “per nulla discusso dello Stato di Lugansk e Donetsk”, aveva sottolineato che, in definitiva, ciò che conta di più dell’accordo è proprio la “zona di massima sicurezza” e la garanzia di inviolabilità con cui nasce.
Il 22 settembre è ufficialmente cominciato da parte delle forze governative ucraine il ritiro delle armi pesanti dall’area individuata come zona-cuscinetto.