Un nuovo capitolo del romanzo-Chapo.
In attesa magari che diventi un film, come vorrebbe lui. Il ministro degli Esteri messicano, José Antonio Meade, ha dato il via libera (ed è la terza volta che il suo ministero lo fa, dall’ultimo arresto) all’estradizione negli Usa del re dei narco-boss, José Guzmán detto appunto “Chapo” (“piccoletto”).
Chapo e gli States, rapporto tormentato, sin dall’ormai lontano 1993. Epoca clintoniana: a Tijuana la polizia messicana scopre un canale sotterraneo, lungo 443 metri, che collega il Messico con la California, e serve ad immettere la droga negli Usa. A gestire quel tunnel e quel traffico di droga è il cartello di Sinaloa, a capo della quale c’è proprio lui, Guzmán, allora trentacinquenne. Questi viene arrestato all’inizio di giugno di quello stesso ’93, nel Chiapas, con l’accusa di omicidio e, naturalmente, traffico di droga.
Recluso nel carcere di Guadalajara, riesce ad evadere – si dice corrompendo le guardie carcerarie - e allarga il suo volume di affari fino alla Colombia, dove arriva a soppiantare le tradizionali dinastie dei signori della droga. Nel corso di un decennio diventa il re del narco-traffico che uccide gli Stati Uniti. Raggiunge l’apice della sua potenza nel 2009, quado la rivista Forbes stima il suo patrimonio in un miliardo di dollari e lo inserisce nella classifica degli uomini più ricchi al mondo.
Nel febbraio del 2014, però, sembra arrivato per lui il momento del redde rationem: in un hotel di Mazatlán viene arrestato nuovamente dalle forze dell’ordine messicane, stavolta con la regia dei servizi segreti statunitensi. Anche stavolta, però, dura poco (sebbene un po’ di più dell’altra): Chapo evade nuovamente nel luglio del 2015, per poi essere nuovamente arrestato, a gennaio di quest’anno, dopo il famoso incontro con l’attore Sean Penn.
Il dipartimento relazioni estere del Messico si è fatto garantire da Washington che El Chapo, qualora venga estradato, non sarà condannato alla pena di morte, che la legge messicana non prevede. Intanto, entro i prossimi trenta giorni il criminale e i suoi legali potrebbero presentare un nuovo ricorso e quindi frenare ancora il processo: è quello che era già successo a giugno del 2015, un mese prima della seconda fuga del boss, e poi a gennaio del 2016, subito dopo il terzo e ultimo arresto.