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La morte dei filosofi, riflessione dopo la scomparsa di Giulio Giorello

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È davvero un gelo incomparabile quello che ti piglia quando viene meno, sopratutto in questi tempi immunitari in cui pericolo e sapere si mischiano imprevedibilmente, un approdo dei tuoi pensieri, come è un filosofo. L'ebrezza che ricavo quando trovo il modo di ottenerne l'attenzione è purtroppo pagata con lo sgomento immancabile che mi prende alla loro scomparsa.

La recente morte di Giulio Giorello mi ha riportato esattamente a quel girovagare disorientato nell'anima che mi aveva provocato anche la separazione da Aldo Masullo, poco tempo fa, e Elio Matassi, già da qualche anno.

Personalità e profili culturali diversi per formazione e identità filosofiche ma unite da una permanente e irriducibile ansia di esperienza cognitiva più ancora che di sapere. La prima è sempre condotta collettivamente e socialmente, per contribuire ad un interesse comune. Il secondo, spesso, è puro armarsi di una differenza, di una giustificazione per il proprio privilegio.

Elio, Aldo e Giulio mi regalavano una straordinaria e semplice confidenza, a volte senza nemmeno recintare quell'irruenza di chi crede davvero di maneggiare concetti inediti e Arditi, mentre poi si vede accompagnato con dolce indulgenza in meandri di pensieri che vengono da lontano e sono filtrati e metabolizzati da infinite vicende umane. Tutti e tre avevano la ricchezza di declinare la profondità del proprio pensiero anche in ambiti apparentemente frivoli. Aldo, a cui mi legava anche una lontana dimestichezza famigliare tramite mio padre, era un Nolano acquisito che ci commentava con usi e costumi della “nolanitudine” non senza civetteria, dalla gastronomia alla mitica festa dei Gigli. Elio aveva invece un legame ancestrale con me tramite il comune e irrinunciabile amore per l'Inter che lui trasformava in uno stile di vita ed una pratica epistemologica. Giulio poi aveva la serietà di rileggere ogni forma delle emozioni, dal Jazz ai fumetti come esercitazioni ontologiche da sviscerare puntualmente. Proprio questa constatazione, che il mondo è sempre eguale ai pensieri che lo abitano e non alle imprese che lo formano, è il costante richiamo che credo di aver tesaurizzato dagli scampoli di vita che ho potuto condividere con i miei filosofi. Dall'alto dei giganti su cui si erano arrampicati -Hegel per Elio, Giordano Bruno per Aldo e Stuart Mill per Giulio- il loro punto di vista mi anticipava e rassicurava, per quanto tentassi di trascinarli in cervellotiche comparazioni con gli scenari digitali che prefigurano. Ogni mia pindarica acrobazia si acquistava nelle curiose domande che loro, i titolari del sapere, avevano l'umiltà a volte di farmi trovando così il modo più fluido per guidarmi a trovare la risposta che non era naturalmente nelle mie premesse. Senza queste domande, senza quel pensoso stupore con cui mi è capitato di confrontarmi avverto più forte un'inadeguatezza che comunque non deve essere inerzia e subalternità. I tre filosofi che si sono fatti conoscere da me erano tre guerrieri della verità, che ognuno cercava lungo itinerari personali e diversi ma sempre con un indomito e temerario gusto di non stare mai nel limite. Un tesoro averli conosciuti, una tremenda disdetta averli persi in un tornante della vita che ne reclamava la necessità. La tavolata che sicuramente stanno imbandendo nella terra dei sapienti ci annuncia che quella storia troverà sempre il modo per continuare.

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