Ad Ortona, Abruzzo, si è consumato un duplice omicidio: uccide la ex moglie, l'amica e ferisce la figlia incinta.
Francesco Marfisi, 60 anni, dipendente della Cogas, dopo aver inferto le pugnalate mortali alla moglie e dopo aver sgozzato la sua amica del cuore, è tornato sul luogo del primo delitto dove per fortuna erano già arrivati i carabinieri. La donna aveva lasciato il marito proprio a causa dei suoi maltrattamenti, e dopo essersi rivolta a un centro anti-violenza e ai carabineri era stata ospitata da un'amica.
Letizia Primiterra, l'ex moglie uccisa, si era rifuggiata dall'amica: l'uomo aveva suonato al campanello, chiedendole di parlare. Letizia è scesa dall'assassino, che l'ha colpita con 30 pugnalate. Le urla hanno fatto uscire di casa anche l'amica e la figlia, che hanno visto Letizia a terra in un lago di sangue e Marfisi che uscendo dal palazzo avrebbe urlato: "Ora vado a uccidere anche l'altra". Prima di andare via Marfisi avrebbe colpito la figlia e inseguito per un breve tratto l'altra donna.
Parte l'allarme ai carabinieri: tutto il quartiere è in subbuglio e la gente scende in strada. Nel frattempo Marfisi raggiunge contrada Tamarete e va nell'abitazione di Laura Pezzella, la più cara amica di Letizia alla quale probabilmente attribuisce la fine del loro rapporto coniugale. Anche in questo caso la donna viene brutalmente aggredita e pugnalata. Il colpo mortale, sempre secondo la prima ricognizione necroscopica, sarebbe stato inferto alla gola.
Non contento, Marfisi, con la camicia e i pantaloni completamente insanguinati, torna in via Zara. Il suo intento probabilmente è quello di uccidere anche l'amica che aveva ospitato la moglie. O forse vuole uccidere la figlia. Fortunatamente quando l'uomo arriva in via Zara, trova i carabinieri che lo bloccano e lo portano in caserma.
"C'erano dei segnali gravi. La signora si era rivolta a un servizio sul territorio per segnalare di essere vittima di maltrattamenti. Ora ci sentiamo di esprimere un grande sgomento e dobbiamo capire dove non è stata compresa", così l'avvocato Francesca Di Muzio, presidente del Centro Antiviolenza, commenta il caso. "Non l'abbiamo presa in carico direttamente noi, quindi conosco la vicenda per quanto mi è stato riferito - spiega Di Muzio - ma esiste una rete fra le associazioni ed evidentemente in questo caso qualcosa non ha funzionato, specialmente a livello di valutazione del rischio. Dobbiamo ripensare il modo di lavorare, di fare formazione dei nostri operatori. Gli strumenti per prevenire ci sono, ma dobbiamo evidentemente pensare a un'attenzione maggiore. I casi di violenza non sono semplici. E comunque non esiste il raptus; quello di oggi è l'epilogo tragico di uno schema che si ripete in molti casi di femminicidio"