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Emmy Awards: “Breaking Bad” protagonista assoluto

Trionfo di un anti-eroe dei nostri tempi

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Lunedì 25 agosto si è svolta a Los Angeles la 66° cerimonia di consegna degli Emmy Awards, gli Oscar della televisione, nella cornice del Nokia Theatre (poco lontano, al Kodak Theatre, vanno invece in scena i “fratelli maggiori” del grande schermo).
Per la seconda volta consecutiva ad essere incoronato miglior telefilm drammatico dell’anno è Breaking Bad, serie conclusasi nel 2013 dopo cinque stagioni (l’ultima è stata suddivisa in due blocchi andati in onda l’uno a distanza di un anno dall’altro). Breaking Bad è un prodotto che rientra pienamente nel filone fictional impostosi con forza a partire dal nuovo millennio: dopo i decenni della tv degli eroi, della blaxpolitation, della sexploitation, dell’edonismo reaganiano e dell’ottimismo post-guerra fredda non c’è storia significativa per il piccolo (ma anche per il grande) schermo che non risenta del trauma dell’11 settembre 2001, dell’incubo di impotenza generato da quelle bombe su Manhattan e su tutte le certezze del mondo occidentale. Basta con valorosi reduci di guerra (del Vietnam) guasconi e irresistibili, con detectives carismatici ed eleganti, con avvocati infallibili e alla mano: l’eroe di oggi è un anti-eroe, un vinto dalla vita, un uomo fragile e pieno di problemi, sul piano privato oggettivo ma anche su quello interiore. Per soffermarci sugli esempi più “autorevoli”, se è un investigatore, sarà sì geniale e meticoloso, ma anche paranoico e maniacale (Monk); se è un medico, sarà un mago delle diagnosi incapace, però, di avere un rapporto umano con i pazienti, perché, in fondo, odia gli uomini (Doctor House); se è uno psicologo, ci sarà qualche lato oscuro del suo animo in cui alberga un dolore inaccessibile (The Mentalist o Lie to me). Il crollo delle Twin Towers, il crollo di un’era, il crollo di un orizzonte storico ci ha costretti a ripiegarci dentro, a guardarci a fondo: si dirà che l’arte ne guadagna con una maggiore introspezione psicologica, ma è vero anche che la ricerca realistica ad Hollywood e dintorni  era iniziata già dalla metà degli anni ’70: è cambiato il modo di raccontare la realtà, il punto di vista della fiction su di essa. Senza accorgercene, ci siamo lasciati alle spalle un’età classica e ci ritroviamo immersi nel pieno di una stagione gotica. In questo panorama non stupisce che la storia più celebrata sia quella di un eroe assolutamente non positivo: un professore di chimica al liceo, cinquantenne, costretto a fare dei lavoretti extra per mantenere la famiglia che si sta allargando (il suo primogenito ha già bisogno di cure speciali perché affetto da paresi cerebrale); in questa sua esistenza grama la svolta (ancora più nera) è in agguato, sotto forma di un cancro ai polmoni che lo costringerà ad accostarsi al mondo degli spacciatori. Non vuole certo suicidarsi con la droga, al contrario (anche se ci avrà pure pensato); il suo scopo è quello di mettere le conoscenze chimiche di una vita di studi al servizio di un giovane venditore di stupefacenti, suo ex allievo, e dividere con lui i guadagni (cospicui) di quel commercio: l‘unico mondo per assicurare alla famiglia un futuro economico, dopo la morte. Tutto sommato, una nobile intenzione: premiata, come si è detto, per il secondo anno di seguito con l’Emmy alla miglior serie drammatica della stagione televisiva e altri tre riconoscimenti, sempre nel campo del genere drama. Sugli scudi le punte di diamante del cast della serie: Bryan Cranston, che col suo professor Walter White si conferma per la quarta volta il miglior attore protagonista; Aaron Paul, miglior attore non protagonista grazie al personaggio di Jesse Pinkman, lo spacciatore; Anna Gunn, miglior attrice non protagonista: nella serie è Skyler, la moglie del professore.
Spulciando nelle altre categorie, si registra un risultato significativo per l’ultima fiction ispirata alle gesta dell’investigatore caro a Conan Doyle, Sherlock: His Last Vow: a questo show vanno l’Emmy per il protagonista e il non protagonista più bravi di una miniserie. Miglior serie comica è Modern Family, ma il miglior attore protagonista nel campo della comedy non è della… “famiglia”: si tratta, infatti, di Jim Parsons, il superlativo Sheldon Cooper di The Big Bang Theory (altra conferma: è alla quarta statuetta, come il suo collega di Breaking Bad). La “Cranston in gonnella” è Julianna Margulies, l’avvocato AlIcia Florrick di The Good Wife (doppietta per lei: per lo stesso ruolo era già stata premiata nel 2011). Allison Jenney trionfa nella stessa serata in due categorie diverse: nel genere comedy come miglior attrice non protagonista in Mom, e, nel drama, da miglior guest star femminile in Masters of Sex.     

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