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Ercolano, il Seneca ritrovato

Riemerge l’opera storica del padre del filosofo

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Papiro 1067, il papiro del destino.

Proveniente da quell’inesauribile miniera di sorprese per i filologi e gli archeologici che è la biblioteca della Villa dei Pisoni, a Ercolano. Un’arca di sapienza di circa 2000 volumi, oggi conservati alla Biblioteca Nazionale di Napoli. Poteva essere, quel papiro 1067, un’orazione di Lucio Manlio Torquato, che divenne console nel 65 a.C. in circostanze un po’ controverse. Nel 66 a.C. lui e il suo collega, Aurelio Cotta, furono battuti, nella corsa a quella magistratura, da Autronio Peto e Cornelio Silla, ma i due non si diedero per vinti e, fatti cadere gli eletti con l’accusa di brogli elettorali, si presero il loro posto l’anno successivo.

Manlio Torquato, però, non c’entrava nulla, con quel rotolo. Tra le sue righe si celava, infatti, qualcosa di ancora più sensazionale. Intendiamoci: anche scoprire un’orazione di Torquato sarebbe stato uno scoop papirologico, visto che del corpus di opere del console, famoso per una  menzione di Orazio, sono rimaste pochissime tracce. La verità è che, se l’obiettivo è lui, probabilmente bisognerà continuare a rovistare nella biblioteca appartenuta a Filodemo di Gadara, filosofo epicureo del I sec. a.C. Per il momento questa tappa papirologica della caccia al console ha avuto un esito non previsto, ma non meno soddisfacente.

E questo esito è stato la scoperta di un altro testo talmente irreperibile da essere considerato quasi leggendario. Stiamo parlando delle Historiae di Lucio Anneo Seneca il Vecchio (54 a.C.39 d.C.), il padre del più famoso filosofo, poi precettore di Nerone. Più che come storico Seneca è noto come retore: era infatti un quotato insegnante di retorica, in pratica un collega di Quintiliano (che era anche suo conterraneo). La sua opera principale resta Oratorum et rhetorum sententiae, divisiones, colores, poderosa opera compilativa ad uso degli studenti.

Il merito della scoperta e dell’attribuzione del rotolo è tutto di una studiosa molisana, Valeria Piano, formatasi a Napoli e attualmente in forza all’istituto papirologico “Vitelli” di Firenze. Ha già al suo attivo alcune interessanti pubblicazioni:  per esempio quella sul papiro di Derveni, trattato macedone del IV sec a.C. che è un commento ad un inno orfico. Anche lei era  convinta di imbattersi in Torquato; ma le è bastato affondare la pupilla nella lente del microscopio perché le si aprisse un mondo del tutto diverso.
Ancora una volta, è il caso di dirlo, bisogna ringraziare la “clemenza” del Vesuvio nei confronti di Ercolano. Essa fu risparmiata dai rovinosi bombardamenti pompeiani di ceneri e lapilli per essere, invece, interessata da una colata di fango e lava che, solidificatasi nel tempo, finì per diventare la migliore teca protettiva di quello che restava della città e dei suoi tesori. I testi della biblioteca di Filodemo (non sempre completi, a dir la verità, ma questo dipende da svariate cause), carbonizzandosi si sono, sì, anneriti, ma sono rimasti integri, pronti per essere decifrati con l’ausilio delle tecnologie moderne.

Il titolo integrale dell’opera è Historiae ab initio bellorum civilium, “Storie dall’inizio della guerra civile”. Probabilmente è una delle prime, insieme a quella di Asinio Pollione,  ad occuparsi specificamente di quest’epoca della storia romana, e potrebbe essere stata fonte per gli storici da cui poi attinsero i classici, fermo restando che non si può escludere che essi stessi se ne siano serviti direttamente. Delle Historiae il rotolo ercolanese conserva 16 frammenti di una copia redatta una settantina di anni dopo la pubblicazione dell’originale. Fu Seneca il Giovane a pubblicarla, e ne curò anche la prefazione.

Il periodo su cui fanno luce i brani recentemente scoperti è quello che va dalla dittatura di Cesare (49-44 a.C.) all’impero di  Tiberio (14-37 d.C.). Si tratta dunque della parte conclusiva dell’opera. A farla da padrona, come si vede, è l’età augustea, nei confronti della quale, come nota Aristide Malnati su Libero, Seneca non si discosta molto dal consensus diffuso presso gli intellettuali dell’epoca. E l’autore non giudica troppo negativamente neppure l’età tiberiana, che anzi considera, nella sostanza, una valida prosecuzione di quella di Augusto. Lontano dal pessimismo di Tacito e dalla malevolenza di Svetonio Seneca non è però insensibile, nota sempre Malnati, alle oscillazioni, talora drammatiche, della bilancia del Potere. E non gli sfugge che, assai sovente, gli aspetti cupi di esso tendono a pesare di più rispetto a quelli illuminati.

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