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La vera storia di Padre Pio

L’unica biografia completa con i documenti segreti esclusi dal processo di beatificazione

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Descrivendo in modo mirabile la vita di un uomo che consacrò la vita a fare del bene in nome e per conto dell’ Amore Universale Enrico Malatesta pone in risalto, in maniera altrettanto documentata, le tenebre che tentarono di ostacolare il volere del Signore.

Negli stessi anni in cui venivano gettate le fondamenta dell’opera grandiosa dovuta alla carità e che si chiamava Casa della Solidarietà, fondazione voluta da P. Pio, cominciò a nascere un’altra impresa che mirava a finanziare, con metodi e mezzi diversi, la costruzione di chiese, di conventi, di seminari, di ospedali e di scuole cattoliche. Era l’impresa di Gianbattista Giufrè, un ex piccolo impiegato di banca, che divenne celebre con il soprannome “Il banchiere di Dio”.

Il caso Giuffrè, che ebbe una notevole risonanza nella penisola e diede un bel da fare ad una commissione parlamentare incaricata di definirne la responsabilità, cadde nello stesso tempo sotto il colpo del codice penale italiano e del codice di diritto canonico.

La tecnica delle operazione di Giuffrè era la seguente: quando gli organi religiosi – vescovi, ordini monastici o congregazioni – volevano costruire degli edifici a scopo religioso o sociale e avevano stabilito il preventivo della spesa e il termine della costruzione (due, tre anni o più) , esortavano i fedeli ad affidare i loro risparmi al Giuffrè per una somma e delle scadenze all’incirca uguali ai su detti preventivi e scadenze. Il Giufrè offriva ai fedeli degli interessi variabili tra il 5% e 10% annui. Ma, e qui che la cosa diventa grave, su questi stessi fondi, affidati dai fedeli a Giuffrè, egli doveva offrire agli organi religiosi che gli avevano così raccolti degli interessi variabili tra il 50 ed il 100% annui.

Tali operazioni non rientravano nella nozione di usura che la Chiesa, come il mondo laico, non ha cessato di denunciare e di condannare da secoli?
Furono dunque gli organi religiosi che praticavano l’usura e non il famoso banchiere. Essi incassarono interessi favolosi su capitali che non gli appartenevano, non corsero alun rischio, potendo spiegare un qualunque “prezzo del servizio reso”. Non prestarono nulla e si limitarono ad offrire la loro “garanzia morale” all’operazione e, così facendo a incoraggiare gli imbrogli di questo Giuffrè, il quale,evidentemente, non poteva pagare a lungo andare degli interessi così enormi a meno di non attingere da nuovi depositi.
Pi ù la spirale si allargò, più grave divenne il pericolo. Gli indizi non passarono inosservati e Pio XII che, informato della situazione, fece inviare nell’aprile 1957 una circolare al clero italiano per metterlo in guardia contro i rischi e il carattere illecito di queste operazioni, ma non fu sempre ascoltato. C’è di peggio: certi ecclesiastici,certi religiosi giunsero ad incoraggiare alcuni loro amici e penitenti laici ad affidarsi, con la complicità di Giuffrè, a tali operazioni.

Molte vittime dell’affare Giuffrè – si calcola la cifra di 25mila – si trovarono in situazioni disperate.
Tutti i mezzi furono messi all’opera per impedire alla vittime di iniziare delle procedure penali contro i responsabili. Cosa incredibile e che spiega la potente influenza delle forze in gioco, è che solo una dozzina di persone chiese la messa in fallimento del Gioffrè. Restarono gli ecclesiastici e i monaci che avevano prestato la mano a queste operazioni finanziarie e a delle pratiche usuraie a spese dei fedeli. Avrebbero dovuto sentirsi obbligati di indennizzare le vittime.

L’ordine dei cappuccini fu il più compromesso da questa triste vicenda. Al momento del crak esso avrebbe dovuto rimborsare delle somme che oltrepassavano dieci volte le sue possibilità di pagamento. La provincia monastica di Foggia fu toccata più delle altre; essa avrebbe dovuto far fronte ad un debito di più di un miliardo e mezzo di lire, ma non aveva in cassa che un milione.
E’ importante sottolineare che il caso di questa provincia era particolare. Essa non era coinvolta nell’affare Giufré che per una somma relativamente modesta, ma adottò a suo modo i metodi del banchiere fuggitivo. I monaci si fecero prestare il denaro dei fedeli e assunsero delle spese sconsiderate con imprese di costruzione per riedificare alcuni monasteri, seminari e chiese, traendo profitto dal credito che portava loro la presenza di P. Pio nella loro provincia.

Ma il fallimento di Giuffré fu anche il loro fallimento. I fedeli, sconvolti, reclamarono la restituzione dei depositi e i monaci di Foggia non poterono resistere alla tentazione di attingere alla cassa della Casa Sollievo per colmare il deficit. I superiori dell’Ordine , compromessi a loro volta attraverso tutta l’Italia, finirono con il subire la medesima tentazione.
Prevedendo il pericolo di atti illeciti con cui essi avrebbero potuto compromettersi in nome della Santa Ubbidienza, Pio XII presentò un rescritto che confermava P. Pio quale amministratore e direttore perpetuo della Casa Sollievo. Il rescritto equivaleva a dispensare il santo monaco dal voto di povertà. A lui si accordò il diritto di usare e di disporre dei beni fino alla morte. Questo rescritto è del 4 aprile 1957.
Vale la pena sottolineare che in questo mese il Pontefice fece inviare una prima diffida contro Giuffrè, come è stato detto sopra.
Ciò che il Papa aveva previsto non tardò a verificarsi: dapprima il Provinciale, poi la Curia Generalizia vollero servirsi della Casa Sollievo per pagare i loro debiti. Ma il rescritto pontificio mise, da quel momento in poi P. Pio al riparo da ogni pressione arbitraria esercitata in nome della Santa Obbedienza.
Si poteva sperare che anche dopo la morte di Pio XII, sopraggiunta nell’ottobre 1958, il carattere “perpetuo” del rescritto sarebbe stato rispettato secondo la tradizione della Chiesa.
Tale non fu, tuttavia, l’opinione della Commissione amministrativa delle Opere di Religione, sulla quale incombeva il pesante compito di liquidare i postumi dell’affare Giuffrè e, pertanto, di regolarizzare il bilancio dell’ordine dei cappuccini. Poiché questi ultimi proposero di far entrare in tale bilancio l’attivo della Casa Sollievo, essa aderì a questo espediente e decise di approvarlo.
Presieduta dal Cardinale Segretario di Stato, diretta di fatto dal Cardinale Di Iorio, grande esperto di finanza, la Commissione era responsabile delle finanze del Vaticano e custode del buon ordine amministrativo di tutte le opere religiose. Molto potente, questa provvedeva ai bisogni dello stato del Vaticano, operava degli investimenti all’estero, trattava, come il direttore di una banca, affari di cui non avrebbe dovuto render conto né tantomeno pubblicava i suoi bilanci, e per di più su tutto ciò “regnava” il segreto diplomatico.

Costatato che P. Pio restava irriducibile a ogni tentativo mirante a fargli abbandonare il suo mandato e a deviare i fondi della Casa Sollievo, si pensò di aggirare l’ostacolo con l”espropriazione” pura e semplice dell’ Opera. Ma questo non era possibile senza l’abrogazione, almeno de facto, del rescritto di Pio XII. Il suo successore, Giovanni XXIII° non avrebbe consentito a sancire una misura inconsueta di questa natura, a meno di non fornire le prove dell’incapacità intellettuale o morale di P. Pio a esercitare le funzioni perpetue che gli conferiva il rescritto.
Per ottenere l’abrogazione di questo rescritto , bisognò nascondere bene e modificare tutti questi elementi prima di presentarli al nuovo pontefice. Si adoperarono due modi:
1) Si cominciò con l’attaccare la persona e le opere di P. Pio. Questa azione fu condotta dal vescovo cappuccino di Padova, Mons. Bortignon, confidente e amico di Mons. Loris Capovilla, il segretario del Pontefice.
2) La violazione del segreto sacramentale, ordinata dai superiori – cappuccini ed altri – di P.Pio, al fine di cercare qualche prova di immoralità o di disubbidienza a suo carico.


LA VERA STORIA DI PADRE PIO
L’unica biografia completa con i documenti segreti esclusi dal processo di beatificazione
Mursia editore
ENRICO MALATESTA

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