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Strage Heysel, i trent’anni di un’assurda tragedia

Il sanguinoso sfondo di uno dei tanti trionfi juventini

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29 maggio 1985. Finale della XXX Coppa dei Campioni. Juventus-Liverpool, allo stadio Heysel di Bruxelles.

Siamo al 57’: c’è un fallo commesso, con tutta evidenza, due metri fuori l’area di rigore inglese. Punizione? No, è decisamente rigore, decreta l’arbitro, lo svizzero André Daina. Sotto il profilo dell’esecuzione, in casa juventina, non cambia molto. Penalty o calcio piazzato contro barriera, resta sempre affare di Platini (anche se il fallo l'aveva subito Boniek, ad opera di Gillespie). E’ proprio il fuoriclasse francese ad occuparsi di spiazzare dagli undici metri il portiere Grobbelaar. Si spegne, così, una partita che, in realtà, non era mai nata.

Le cronache (alcune cronache) scriveranno che la Juventus ha letteralmente rubato la vittoria con il consenso delle autorità calcistiche, che dovevano punire il Liverpool. Una vendetta trasversale: per impartire una lezione agli hooligans, i tifosi inglesi più brutai e sanguinari di una tribù di barbari, si è voluta penalizzare la loro squadra. E, sempre per quei barbari,  tutto il calcio britannico avrebbe pagato per più di un lustro, venendo escluso dalle competizioni europee.

Ventidue fantasmi, ecco cos’erano diventati, all’improvviso, i protagonisti del più importante appuntamento del calcio continentale per club. Un appuntamento, slittato, oltretutto, di un’ora esatta. Dalle 20.15 del programma iniziale il fischio d’avvio si è spostato alle 21.45. E come si sarebbe potuto giocare prima, con l’inferno che si era appena consumato in mezzo al pubblico? Battaglia vera e propria, in realtà, non ce ne fu: il primo responsabile del disastro fu il panico,

Il panico ingenerato, naturalmente, dall’avanzata degli hooligans del Liverpool che, come bulldozer, affiancati dai “gemelli” del Chelsea (i cosiddetti “cacciatori di teste”, gli head hunters), dalla curva di loro competenza si spingevano a folate assassine contro l’exclave dei tifosi juventini, il settore Z, attaccato a quelli dei tifosi inglesi ma molto lontano dai settori che erano stati regolarmente assegnati agli altri juventini (si trovavano dalla parte opposta dello stadio). Non era tifoseria organizzata, quella del settore Z, bensì tifosi normali che, per i biglietti e per la trasferta, si erano organizzati in modo indipendente dal resto dei supporters juventini.

Dunque, all’origine del dramma ci fu il panico e un tragico “scambio di persona”: gli ultrà inglesi, divelte le recinzioni di protezione, che oltretutto erano piuttosto basse (bisogna dire che l'Heysel era una struttura che abbisognava,di manutenzione), credettero di trovarsi a che fare con ultrà di fede opposta. A tale convinzione li aveva indotti, colpevolmente, la stessa polizia belga, che, senza fare distinzione tra facinorosi e sportivi comuni, aveva accompagnato i tifosi italiani nel settore Z  non disdegnando qualche manganellata (e continuò con tale trattamento, anzi lo intensificò, anche dopo i primi contatti con gli inglesi). Assolutamente impreparato all’assalto di quelle belve, il popolo dello Z (dove, va precisato, c’erano anche degli spettatori belgi assolutamente neutrali) pensò bene o di gettarsi nel vuoto, per evitare di rimanere schiacciato tra l'orda avanzante e la fuga disordinata degli altri ospiti del settore, o di cercare un varco tra la folla verso il terreno di gioco, oppure, poiché nel frattempo ci si erano messe anche le bastonate degli agenti, di riversarsi contro il muro divisorio tra la zona che occupava e i settori riservati agli spettatori belgi. Con il risultato di far crollare quel muro e dare il detonatore al disastro. Il bilancio finale degli incidenti fu di trentanove morti: di essi solo sette non erano italiani. Più di seicento, invece, furono i feriti, italiani, inglesi, belgi, in modo variamente grave. Tutto questo si era svolto a poco più di mezz’ora dall’inizio della gara. 

Oggi sono trent’anni esatti da quel triste giorno per il calcio juventino. Triste, ovviamente, sotto un certo punto di vista. Allora non furono pochi coloro che trovarono riprovevole la soddisfazione di Platini dopo il gol-vittoria. Dieci anni dopo quei fatti, nel 1995, in un’intervista alla Stampa l’asso francese ammise che, in realtà,  lui e i suoi compagni (inclusi Scirea, Cabrini e Tardelli, che avevano lanciato l'appello alla calma, e presumibilmente, anche i giocatori avversari) non erano al corrente delle esatte proporzioni di quello che era successo sugli spalti. Scesero in campo visibilmente scossi, eppure inconsapevoli della tragedia nella sua interezza.

In effetti le dichiarazioni del futuro presidente Uefa sono coerenti con quello che fu il suo comportamento di allora: appena un giorno dopo la gara, infatti, quando il quadro del disastro era stato ormai chiaramente definito, egli non perse tempo a dissociarsi dai festeggiamenti. Sempre nel ’95, Boniek confessò che avrebbe preferito che quella partita non si giocasse, allineandosi così tardivamente ad un’opinione che aveva fatto molti proseliti nei giorni e nelle settimane immediatamente successivi alla partita. Ci sono voluti poi altri dieci anni – siamo nel 2005 – perché Marco Tardelli, in tv, davanti a Giovanni Minoli, chiedesse scusa per i festeggiamenti che comunque, a coppa conquistata, in casa juventina non mancarono.  E oggi, nel terzo decennale della finale  dell’Heysel, Tacconi afferma che ai giocatori della Juve fu ordinato di giocare e di festeggiare. Gli si affiancherà la voce di qualche altro protagonista bianconero di quella serata da dimenticare, eppure indimenticabile?

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