Nella giornata di mercoledì 9 aprile il Time, primo storico settimanale made in USA fondato nel lontano 1923 da Britton Hadden e Henry Robinson Luce, famoso al mondo per essere il giornale che nel mese di dicembre di ogni anno elegge The Man of the Year dedicandogli la copertina, ha pubblicato un articolo firmato Thomas C. Frohlinch, Vince Calio e Alexander E.M. Hess, con il quale viene offerto all'opinione pubblica una classifica dei nove principali Stati al mondo che secondo l'intelligence americana nutrono nei confronti del Paese a stelle e strisce sentimenti che i giornalisti non lesinano di definire 'd'odio'.
Certo, non si tratta di una classifica arbitraria, ma del risultato scientifico e statistico a cui ha portato uno studio, chiamato US- Global Leadership Project, nato grazie al partenariato di due organizzazioni USA, il Meridian International Center, con sede a Washington, che si propone la promozione della cultura e filosofia americana nel mondo, e la Gallup, azienda famosa per i suoi sondaggi di opinione pubblica.
Ebbene, dallo studio è emerso che nel contesto della globalizzazione la leadership americana volge generalmente verso il meglio, la sua immagine di 'poliziotto del mondo', di cui gli americani sono naturalmente consapevoli, così come confermato dallo stesso Obama anche in occasione della sua visita a Roma, va sostanzialmente scemando, così come nel complesso è l'opinione pubblica mondiale a guardare con più fiducia nei confronti della loro leadership, notizie certamente positive, non fosse anche per la naturale ricaduta nelle attività diplomatiche tra gli Stati.
Eppure non sempre può essere così, nulla è assoluto, tutto è relativo, figuriamoci quando ad essere oggetto di uno studio sono il grado di apprezzamento di politiche internazionali e le reazioni autoctone delle popolazioni locali. Stante infatti l'articolo del settimanale permangono nello scacchiere diplomatico internazionale sacche di vera opposizione all'immanenza della cultura americana e occidentale nel mondo, regioni come l'Iran, Iraq, lo Yemen, e persino l'europea Slovenia,nelle quali l'influenza di Washington è ancora oggi vista come un'eresia, se non come autentica minaccia al patrimonio della propria tradizione culturale.
Grazie quindi al lavoro di recupero dati e di sondaggio delle due organizzazioni USA, l'intelligence è riuscita così a stilare una vera e propria classifica di quelli che ancora oggi rappresentano gli Stati al mondo dove la leadership a stelle e strisce fatica ad imporsi, fornendo al lettore, inoltre, valori statistici come il tasso di disoccupazione, il reddito pro-capite e l'aspettativa di vita, che naturalmente giocano un ruolo poi nella genesi delle ostilità locali all'immanenza degli USA nei propri territori.
Vediamoli ora più da presso; nona in questa speciale classifica, un po' a sorpresa, la Tunisia, Paese del Nord Africa nel quale il risentimento nei confronti degli USA si attesta al 54%, il tasso di disoccupazione è al 16,7% e l'aspettativa di vita non supera i 75 anni.
E' probabile che la presenza della Tunisia all'interno di questa speciale classifica sia dovuto agli effetti degli incidenti che si registrarono con l'inizio del 2011, quando a Tunisi infatti montava la protesta che poi entrerà nella Storia come il vento della primavera araba, l'evento che via via spazzerà i regimi dittatoriali che dal dopoguerra si radicalizzarono in quasi tutti gli Stati del Nord Africa. Ebbene, nonostante gli aiuti economici, sottolinea il Time, che il governo americano a quel tempo elargì affinchè il popolo tunisino riuscisse nella cacciata di El- Abidine Ben Ali e nella costruzione di una Democrazia di stampo occidentale, la popolazione indigena continua a rimanere ostile all'influenza USA, un'ostilità che viene confermata dall'attacco subito lo scorso anno dall'ambasciata USA a Tunisi. Le ragioni di questo fenomeno il Time le ritrova nell'alto tasso di disoccupazione, così come nella delusione per l'attuale establishment tunisino.
Ottavo, l'Iran, Stato storicamente antitetico a Washington, con il quale gli USA hanno interrotto ormai ogni dialogo dai tempi della rivoluzione di Khomeini, e che oggi rappresenta per l'intelligence una preoccupazione per l'intransigenza dell'establishment iraniano a non voler sospendere il programma nucleare, che sebbene, come più volte confermato da Teheran, sarà necessario solo per fornire la popolazione di energia a basso costo, per alcuni costituisce la più grave minaccia alla pace, non fosse per la concreta possibilità che ora l'Iran ha di arrivare alla costruzione di armamenti dotati dispositivi nucleari. Se a ciò aggiungiamo la retorica anti-sionista dei leader di Teheran, le ragioni delle preoccupazioni dell'intelligence USA sono presto date.
Data la caparbietà di Teheran a voler proseguire il programma nucleare, com'è noto ciò gli è valso dure sanzioni economiche da parte della comunità internazionale, una realtà , quindi, che se da una parte ha fatto salire il prezzo dei beni di consumo per la popolazione locale alle stelle, un incremento del costo della vita pari al 42%, dall'altra ha avuto l'effetto di alimentare ulteriormente il dissenso degli iraniani alla cultura occidentale, un dissenso quantificato dal Time al 56,0%, una stima di per sé molto alta, ma sorprendentemente non la più alta.
Settima, l'europea e membro della Nato Slovenia; sorprende infatti trovare una 'nostra sorella di confine' tra i cattivi del Time, eppure la grave crisi economica che si è abbattuta anche in Slovenia porta con sé, forse anche a causa dei retaggi dell'antico comunismo della Jugoslavia che fu di Tito, il nascere di sentimenti anti-occidentali ed anti-americani che, stando all'articolo, coinvolgono la bellezza del 57% della popolazione locale. Nonostante ciò, il caso Sloveno non rappresenta una minaccia di destabilizzazione dello status, ed è assai probabile, sostiene il Time, che il dissenso sia figlio della crisi, per cui una volta che i livelli di vita torneranno ai livelli pre-crisi, anche l'immagine dell'Occidente agli occhi della popolazione locale cambierà in positivo.
Sesto, l'Egitto: secondo l'indagine il grado di ostilità nei confronti dell'Occidente nella terra delle Piramidi e della Sfinge si attesta al 57%, un valore questo che sarebbe ulteriormente cresciuto con la cacciata di Morsi dalla presidenza dell'Egitto dopo aver vinto regolarmente le elezioni per le file dei 'Fratelli Mussulmani', e con la decisione da parte del governo USA di sospendere il piano di aiuti anche a causa dei frequenti disordini sociali sfociati a volte in aperto conflitto.
Grave è anche lo stallo occupazionale con un tasso di disoccupazione fermo al 13%, aspetti che necessariamente, insieme alla bassa aspettativa di vita della popolazione locale che non supera i 71 anni, hanno l'effetto di incrementare 'l'odio' nei confronti delle culture occidentali, e poi, è bene sottolineare, ad Est de Il Cairo c'è Israele.
Quinto, l'Iraq: l'inimicizia tra USA, Occidente e Iraq è ormai una storia che prosegue senza soluzione di continuità dalla bellezza di 23 anni, dai tempi della prima guerra del Golfo nel 1991, quando l'allora presidente degli USA, George Bush senior, ordinò di attaccare le truppe di Saddam Hussein ree di aver invaso le ricche terre di petrolio del Kuwait. Una conflittualità che seppur latente, divenne manifesta, com'è noto, all'indomani del 11 settembre quando il conquilino della Casa Bianca era George W. Bush junior, il presidente che, sospettando il possesso di armi di distruzione di massa da parte del regime di Saddam, ne ordinò la fine.
La storia poi la conosciamo; Saddam fu catturato, processato e condannato a morte, le famigerate armi di distruzione non furono alla fine mai trovate e il conflitto si protrasse per molti anni ancora, lasciando dietro di sé numerosissime vittime anche tra la popolazione civile, sopratutto a causa dei frequenti attentati terroristici compiuti contro le milizie americane, tutti aspetti che ovviamente giocano un ruolo sostanziale nel risentimento del popolo iracheno nei confronti dell'Occidente e della bandiera a stelle e strisce. Se a questo poi si aggiunge l'altissimo tasso di povertà presente nella società civile non sorprenda più di tanto che il dissenso si attesti al 67%, 10 punti di differenza in più rispetto alla sesta classificata.
Quarto, lo Yemen: anche lo Stato della penisola arabica è uno dei Paesi al più al mondo più ostili all'attività diplomatica di Washington, con un dissenso locale fermo al 69%. La ragione di questo, spiega il Time, è dovuta principalmente all'alto numero di yemeniti detenuti nelle carceri americane, sia al grave stato di degenza della popolazione locale, uno infatti dei Paesi più poveri al mondo, con un reddito pro-capite che non supera i 3mila dollari l'anno ed un' aspettativa di vita che non supera i 63 anni. Aspetti, quindi, ancora una volta, giocano un ruolo chiave nei sentimenti anti-occidentalizzazione degli yemeniti.
Terzo: il Libano. Spiega il Time che il dissenso della popolazione libanese nei confronti della leadership americana si deve interpretare a partire dall'appoggio che Washington da sempre offre e garantisce per la tutela dei territori di Israele. Il Libano, com'è noto, è infatti il territorio ove opera il gruppo armato degli Hezbollah, il partito politico sciita fondato nel 1982, nel cui simbolo compare anche un fucile, considerato dall'Occidente, compresa l'Europa, alla stregua di un gruppo terroristico. La distanza ideologica delle parti in causa è talmente siderale, che appare persino naturale che il 71% della popolazione locale si dichiari ostile, se non nemica, dell'Occidente e degli Usa.
Secondo, Pakistan: sebbene oltre il 73% della popolazione locale si è dichiarata ostile a Washington, si tratta, spiega il Time, comunque di un miglioramento rispetto ai valori registrati nel passato. Diversamente infatti dall'esito dell'ultima analisi, il dissenso del Pakistan nei confronti degli USA è sceso del 6%, un dato che naturalmente fa ben sperare per il futuro, ma che oggi, comunque, non permette ancora alcun abbassamento della guardia.
Che i rapporti tra USA e Pakistan siano tesi non si scopre infatti certamente oggi, un dissidio da sempre latente, e poi apertamente sfociato con l'inizio della crisi dopo l'attacco alle Twin Towers del 11 settembre, essendo stato il Pakistan uno dei Paesi su cui ricadde inizialmente la responsabilità del tragico evento che sconvolse il mondo. Inoltre lo Stato a Nord dell'India, insieme all'Afghanistan, è stato accusato più volte anche di essere complice della latitanza di Bin Laden, lo storico capo fondatore del gruppo terrorista di Al Qaeda, ucciso in circostanze ancora da chiarire il 6 maggio 2011 con un blitz in territorio pakistano da parte di un gruppo armato di forze speciali USA, un evento tuttavia, come la cronaca dei fatti conferma, a cui ha fatto seguito il risveglio del risentimento anti-occidentale della popolazione.
Primo, la Palestina: secondo lo studio americano 4 palestinesi su 5 si dichiarano ostili alla cultura USA ed Occidentale, facendo dunque della Palestina la regione al mondo con la gran lunga peggiore percezione degli Stati Uniti, l'80%. La principale, se non esclusiva, ragione del dissenso palestinese verso gli Stati Uniti è l'eterno conflitto con Israele. Hamas, l'organizzazione che ha di fatto governato il territorio della Striscia di Gaza dal 2007, è infatti ancora oggi considerato dagli Stati Uniti e dall'Unione europea un'organizzazione terroristica.
Dato che una soluzione diplomatica sulla questione dei territori oggetto della contesa non è mai arrivata ad una definita quadratura, ciò, agli occhi di un Palestinese, favorisce solo l'uso della forza di Israele, che com'è si è detto, gode dell'incondizionato aiuto degli USA, una realtà che se da una parte ritarda, e ritarderà ancora, una soluzione politica e diplomatica, dall'altra continua ad alimentare sentimenti pronti ad esplodere.