Tutta la cinematografia Disney.
Ma anche Jurassic Park. E Star Wars. E Schindler’s List. E tonnellate di altri grandi film e telefilm e cartoni, come I Griffin. Questo è l’impero dei De Leonardis, una delle grandi dinastie dell’industria italiana del doppiaggio. L’opera del capostipite Roberto è stata egregiamente continuata dal figlio, Roy, e probabilmente sarà proseguita dal figlio di questi.
Ho avuto la fortuna di conoscere mr. Roy De Leonardis come studente della scuola di scrittura per il cinema e la televisione della Luiss. A distanza di alcuni anni da quell’esperienza, mi sono ritagliato la possibilità di rivederlo per quest’intervista nel suo studio in via della Scrofa a Roma. Ho trovato quella stessa persona bonaria, serena, piacevole, entusiasta, giocosa e gioiosa che mi ricordavo. Dopo essermi lasciato sfuggire l’occasione di farlo partecipare ad un progetto di documentario, non volevo perdere almeno la possibilità di aggiungerlo nella galleria di ritratti per Notizie nazionali. Ecco perché, contrariamente alle mie abitudini, ho cercato di spaccare il minuto all’appuntamento per le 17.00 di giovedì 28 giugno 2018. Accolto dalle sue gentili segretarie, superata la muraglia sorniona del suo placido cagnone, ho potuto stringere finalmente la mano al mio caro ex docente (quella non occupata dal sigaro). Nel suo studio, genuinamente esposto ai rumori del traffico capitolino (e la cosa si nota chiaramente nel video caricato per YouTube), ho notato la collezione completa dei volumi di Tex. Mi sarebbe piaciuto scorgere anche qualcosa di relativo all’altra sua grande passione, il golf, ma non ci sono riuscito. Così come, poco prima di varcare la soglia della Roy Film, avrei voluto riconoscere quel motorino con cui lo vidi, una volta, arrivare ai villini di via Nomentana (uno dei primi ricordi che ho di lui). Ma niente anche su questo fronte, pazienza. Quanto al doppiaggio, vocazione di una vita, non c’erano dubbi: non mi occorreva vedere cimeli e memorabilia sparsi per la stanza; piuttosto mi interessavano quelli che Roy custodisce nel cuore.
Roy De Leonardis, vogliamo sfatare una volta per tutte il luogo comune per cui il doppiatore è un attore “non consacrato”? Chi è veramente costui?
Il doppiatore è un grosso professionista, specie in Italia dove pratichiamo un doppiaggio di un certo livello che credo ci invidino un po’ tutti. È un attore di spessore, che riesce a immedesimarsi in una parte con una dedizione certosina. E a passare anche, velocemente, da un certo ruolo ad un altro che non ha niente a che fare col primo. Può capitare quindi che, alla mattina, un doppiatore strappi gli applausi della sala di doppiaggio con un pezzo di altissima drammaticità e poi, al pomeriggio, passi ad un personaggio comico. C’è da dire, poi, che di solito i doppiatori non vedono il film prima di entrare in sala: quindi un’altra loro grande capacità dev’essere quella di saper afferrare al volo le poche, basiche indicazioni del direttore del doppiaggio. A certi livelli, poi, ce ne sono alcuni che raggiungono una familiarità tale con le movenze espressive del loro personaggio da non aver neppure più bisogno di provare: mi riferisco, ad esempio, ai doppiatori di Topolino e Pippo.
L’attore lavora per entrare nell’immaginario del pubblico; il doppiatore, invece, per allargarne la fantasia. È d’accordo?
Sostanzialmente sì. Prima di tutto, però, è bene dire che il doppiatore riesce a dare quei sentimenti e quelle emozioni che difficilmente il pubblico, di fronte ad un prodotto originale, riuscirebbe ad avere. Io credo che sia ancora molto complicato per gli spettatori seguire un film con i sottotitoli. Sono piuttosto pessimista sul fatto che una conoscenza apprezzabile dell’inglese sia davvero così diffusa presso la grande massa, e davvero non saprei dire in che misura potrebbe apprezzare il grande attore in originale. Poi sfido coloro che dicono che il doppiaggio è un tradimento e che “Ah! É meglio l'originale!” a mettersi a fare una traduzione integrale di tutto. Per quanto si possa essere attentissimi e anche piuttosto ferrati in inglese, qualcosa alla fine si finisce sempre per non capirla.
Che significa lavorare con tanti doppiatori diversi? Ogni casa di doppiaggio ha un proprio stile e proprie regole?
Tanti anni fa nel mondo del doppiaggio c’era molta più scelta qualitativa di voci, e il panorama non era “appiattito” come adesso. Le tv – in primis quelle commerciali – hanno peggiorato le cose. Soprattutto per la precipitazione dei tempi che hanno imposto, inevitabilmente a discapito della recitazione. Tuttavia il fatto che ci fosse più eccellenza non significa che ci fossero tantissimi doppiatori: si trattava, infatti, di una popolazione artistica sostanzialmente gravitante entro quattro grandi gruppi associativi. Parliamo della Cdc, la Cvd, la S.a.s. e la Defis: nessuna di esse poteva vantare una “scuderia” troppo nutrita. Tant’è che mio padre, quando dovette far doppiare Tora Tora Tora (mitico film del 1970 con Martin Balsam, ndr), fu costretto ad affidare a due cooperative diverse il doppiaggio rispettivamente dei personaggi giapponesi e di quelli americani.
Ammesso che il doppiatore non sia anche un divo del cinema, a volte può avere in comune con lui alcuni “difetti” caratteriali (per esempio il divismo)?
Be’, qualche doppiatore-divo c’è e mi è anche capitato di conoscerlo. Quello che è convinto che quel determinato attore sia “suo” e tollera a stento che, in una qualche occasione, possa essere affidato ad un collega. Mi ricordo il caso di Ferruccio Amendola, grande monopolizzatore che doppiava Al Pacino, De Niro, Stallone e Dustin Hoffman: una volta che fu “spodestato” di Pacino, successe un mezzo macello. D’altra parte, però, bisogna anche rispettare la fidelizzazione del pubblico, altrimenti si rischia di andare incontro a sicuri flop: mi viene in mente Paul Newman che, nel film “Il verdetto” (diretto da Sidney Lumet nel 1982, ndr) rimase “orfano” di Beppe Rinaldi. E andò malissimo.
Di qualcuno dei grandi doppiatori che ha avuto modo di conoscere durante la sua attività ricorda qualche mania particolare? Che so, qualche rito scaramantico prima di entrare in sala, o durante il doppiaggio?
Penso ancora a Rinaldi: un mostro, nel vero senso della parola. Capace di amministrare alla perfezione un ruolo di Jack Lemmon e poi di passare, con nonchalance, a misurarsi con Max Von Sydow. Ebbi modo di ammirarne, dal vivo, la classe superlativa ai tempi in cui incidevo le fiabe per la Disney. Mi colpì questo di lui: mentre, di norma, tutti i doppiatori stanno in piedi, lui era l’unico che pretendeva una sedia davanti al microfono. Poi, una volta accomodatosi, diceva al direttore del doppiaggio e ai suoi assistenti: “Appena sbaglio, fermatemi”. Ma praticamente non accadeva mai. Può darsi (ma ho molti dubbi) che sia stato fermato una volta. Ma chiamare Rinaldi a doppiare significava assistere alla prestazione di un congegno perfetto, capace di arrivare in fondo al foglio delle battute senza errori e nel tempo assegnato.
C’è differenza tra doppiare principalmente film cinematografici e doppiare, di preferenza, serie televisive?
Nei fatti un’enorme differenza, naturalmente. Ed è prima di tutto tecnica: il contratto nazionale del settore prevede 220 righe (quelle del foglio delle battute, ndr) per le serie televisive – ma alla fine è sempre qualcuna in più – e 140 per i film. Però per i film spesso ci sono più difficoltà perché i doppiatori si trovano, ogni volta, di fronte a qualcosa di nuovo. Invece nelle serie televisive si sentono un po’ più “a casa”, per così dire, perché si trovano di fronte a un nucleo di personaggi che è loro già familiare e a certi meccanismi della storia già collaudati.
Da quello che le risulta, a che età un doppiatore comincia veramente a prendere dimestichezza col mestiere?
Be’, occorre essere chiari: questo è un mestiere che di preferenza si impara da bambini. È proprio iniziando a doppiare da piccoli che si acquisisce l’esperienza necessaria per padroneggiare il microfono. Diversamente, un’ottima e lunga esperienza teatrale alle spalle può consentire di sbarcare nel mondo del doppiaggio con grandi soddisfazioni anche da adulti. Debbo citare a questo proposito una delle mie “scoperte” più recenti: Stefano De Sando, oggi voce ufficiale di Robert De Niro. Però, per quello che è il mercato di oggi, ci sono margini sempre più stretti per la sperimentazione: con i committenti che hanno il fucile puntato e i tempi super-sincopati quasi sempre ci si affida ad artisti di comprovata esperienza. Quelli che, appunto, hanno avuto il tempo di sbagliare e di crescere in un’età molto verde.
Quanto ha contato il doppiaggio Disney nell’evoluzione della lingua dei doppiatori?
Il doppiaggio Disney storicamente è sempre stato molto attento ai minori. È sempre stato un doppiaggio molto pulito e, possibilmente, in perfetto italiano, anche perché non ci possiamo permettere sciocchezze con un pubblico appassionato e sensibile come quello dei ragazzini. In altri tempi, comunque, eravamo anche “protetti” da un quadro più generale in cui l’offerta linguistica per il cinema era improntata al massimo garbo e alla massima educazione. Oggi, invece, e lo dico con rammarico, persino principesse, eroi e simpatiche fiere della Disney seguono la tendenza maggioritaria del doppiaggio ad inseguire un italiano più “realistico”, dove il congiuntivo si è perso, con mio grande dolore, e dove tutto si appiattisce al presente. Eppure non bisognerebbe dimenticare che i prodotti della Disney hanno prima di tutto un valore istruttivo. E quasi penso con nostalgia ai tempi delle censure che ci venivano imposte dai piani alti della Disney: quando, cioè, non potevamo permetterci di usare né parole volgari né altre parole offensive né tantomeno sottilmente alludenti. Quindi niente “pisello”, niente “mentecatto” ma neppure “stupido”! Poi, certo, se i cartoni animati non sono dedicati ai bambini ma sono espressamente per adulti – come I Griffin e Bojack – il discorso cambia. Proprio a proposito di Bojack, ricordo che tentammo di ripulirlo in vista di un passaggio televisivo nel primo pomeriggio, ma la Fox ci fece fare brutalmente marcia indietro.
Si riveda per un attimo spettatore bambino: che cosa le piacerebbe vedere dei film e dei cartoni di oggi, e che cosa non le piacerebbe vedere?
Be’, sono una persona molto curiosa, quindi penso che comunque vedrei tutto senza problemi. Semmai non mi piacerebbe vedere come i film e i telefilm sono fatti adesso: una volta ci si dedicava più tempo e più cura, oggi la troppa velocità fa scadere la qualità. Tempo addietro in quattro anni si faceva un film, oggi se ne tirano fuori quaranta. Non mi piacciono più i disegni, e non mi convincono troppo le storie; per non parlare dell’uso del computer. E soprattutto non digerisco l’invadenza delle parole: una volta i dialoghi erano pregnanti ma ridotti al minimo, per lasciare spazio agli effetti musicali. Oggi si parla troppo, e su tutto. Questa spiacevole tendenza è invalsa anche nella Disney, direi a partire da “Aladdin”.
A questo punto la domanda è d’obbligo: qual è il film della Disney che la emoziona di più in assoluto?
Probabilmente “Il libro della giungla” (quello del 1967, ma De Leonardis si è occupato anche dell’edizione più recente, ndr). Anche perché fu una delle prime esperienze in cui lavorai fianco a fianco con mio padre in questo settore, e ne ho un ricordo piacevolissimo. Vissi tutto come un grandissimo divertimento, dall’americano mandato dalla Disney per supervisionare i lavori al doppiatore col suo tratto fisico e vocale caratteristico. Devo dire che, a quei tempi, oltre che una qualità, c’era anche un’atmosfera completamente diversa!
C’è stata un’evoluzione di casa De Leonardis da suo padre a lei? Ci sono delle differenze di stile?
Direi che la differenza sostanziale riguarda le competenze. Mio padre era un dialoghista e un paroliere. E ha insegnato il mestiere a parecchie persone in questo campo. Io mi sono sempre occupato solo di edizione del doppiaggio, invece. Mio padre è stato un pioniere, un fondatore. Finché si è rimasti sul solco tracciato da lui, la dialoghistica per i prodotti Disney in Italia non ha perso smalto né qualità. Le cose, purtroppo, si sono deteriorate irreversibilmente da “Aladdin” in poi. Appena posso, comunque, mi rifugio in qualche vecchio classico per ritrovare serenità.
Onestamente, cosa pensa che i doppiatori pensino di lei? Qual è il principale motivo per cui potrebbe dire che la stimano?
In fondo loro sanno che sono sempre stato una persona corretta. Li ho sempre pagati e valorizzati per quello che meritano, senza favorire o danneggiare nessuno. Sono sempre stato molto rispettoso della loro professionalità. Forse è per questo che mi vogliono bene.
E ti vogliamo bene anche noi, caro Roy. Alle prossime. Alle prossimissime.