Trentaquattro voti.
Un sorriso per Barack Obama, che al Senato di Washington è praticamente sicuro di aver trovato la base di consensi per dare un futuro all’accordo sul nucleare iraniano, quello storico sottoscritto a Vienna lo scorso 14 luglio. E metterlo in cassaforte, avendo il "materiale numerico" necessario per puntellare un eventuale veto contro un pronunciamento negativo del Congresso (che, come si sa, è a maggioranza repubblicana). Si è ottenuto il massimo con il minimo possibile (34 è, in effetti, la soglia più risicata di consensi in Senato), ma il bello è che, in teoria, basta poco di più per... raggiungere il cielo: cioè, vincere subito (vincere facile) e bypassare il parere negativo del Campidoglio (di tutto il Campidoglio), senza neanche prendersi il disturbo di opporre il veto. E no, non è solo facile ottimismo da Change Man.
Basta un'aggiustatina: i demo-pessimisti (ma Obama non era tra quelli) pensavano che sarebbe stata un'impresa già soltanto arrivare a più di trenta senatori allineati. Non avevano fatto i conti con la "buona volontà" di Casey, Coons e Mikulski, tre loro colleghi, "folgorati sulla via di Damasco", e responsabilmente tornati sulle loro posizioni. Ora, fermo restando che ci sono ancora pochi senatori democratici (non più di due) disposti a votare a fianco dei repubblicani contro il loro presidente, per far sì che il Congresso dica sì subito, bisognerebbe convertirne altri "otto" e arrivare a 41 su 100 (la soglia che scongiura un eventuale niet dell'Assemblea e quindi il contro-niet della Casa Bianca). E si punta molto sull'effetto-domino che potrebbe essere determinato proprio da quei tre "responsabili" dell'ultima ora. La partita è tutta al Senato, è inutile dirlo, perché la Camera dei Rappresentanti si dà già per persa: ma basta espugnare almeno un ramo del Congresso per vanificarne ogni proposito bellicoso, dal momento che, per renderlo valido, bisognerebbe avere la maggioranza dei due terzi, e in entrambi i rami. Insomma, Obama non lo dice ma si sta allenando in gran segreto con dentifricio e filointerdentale, per sfoderare, al momento opportuno, un sorriso fluorescente.
Il segretario di Stato, John Kerry, quello che si può forse definire il vero artefice, da parte americana, dello storico accordo vindobonese, per parte sua non nasconde la tentazione di fare bingo subito, al prossimo assalto : “I 34 voti – dice – ci consentono di conquistare la vittoria momentanea in un ramo del Parlamento, ma la nostra ambizione sarebbe quella di farla uscire dal Congresso con il più alto gradimento bipartisan possibile. Vogliamo andare oltre e continuare a cercare consensi.”
Scendendo nei dettagli cari ai ragionieri delle sedute parlamentari, i 34 voti sono, come calcola la Repubblica, frutto del consenso espresso da 32 senatori democratici (tra i quali si includono evidentemente anche i tre ritardatari) e due loro colleghi indipendenti. Ora il “copione” prevede che entro il 17 settembre i due rami del Parlamento si esprimano in maniera definitiva sul tema: e potrebbe essere “risoluzione di approvazione”, o più verosimilmente, “di disapprovazione”. Ma il presidente, in pratica, ha già pronto il giubbetto di protezione per farsela rimbalzare sulla pancia. E non è detto che gli occorra metterlo.