La recente sfiducia di Federica Picchi, sottosegretaria della Regione Lombardia con delega allo Sport e ai Giovani, non è solo un episodio di politica locale, ma un preoccupante segnale di quanto la "dittatura del politicamente corretto" sia ormai penetrata nelle istituzioni, erigendosi a giudice supremo della legittimità delle opinioni. Sfiduciare una carica politica non per inadempienza amministrativa, ma per aver condiviso una "storia su Instagram" contenente teorie percepite come "no vax", è un atto di cieca adesione alla logica della gogna digitale che mina la democrazia del confronto.
Picchi è stata colpita non per aver imposto una linea politica contraria alle campagne vaccinali della Regione Lombardia, che ha anzi ribadito di sostenere, ma per aver rilanciato contenuti critici o dibattibili, in questo caso legati alle teorie di Robert Kennedy Jr. Saremmo di fronte a una nuova, inquietante regola non scritta: i rappresentanti delle istituzioni non possono dare spazio a tesi non allineate al mainstream, nemmeno a titolo di discussione o mera ricondivisione. Questo meccanismo stabilisce un precedente inaccettabile: la carriera e l'operato di un politico possono essere annullati da una fugace storia su un social network. Si sposta il focus dall'azione di governo alla perfetta aderenza ideologica.
La politica e la scienza progrediscono attraverso il dubbio e il confronto. Se ogni espressione di perplessità o la semplice condivisione di fonti alternative (anche se contestate dalla scienza ufficiale) diventa motivo di epurazione, stiamo abdicando alla libertà di pensiero in nome di un'ortodossia monolitica. La battaglia contro la Picchi è l'ennesimo sintomo di un'epoca dominata dall'eccessiva sensibilità e dalla volontà di omologazione ideologica. Il cosiddetto politically correct non è più uno strumento di rispetto, ma una gabbia espressiva che bolla come "pericoloso" o "sbagliato" tutto ciò che devia dal pensiero unico dominante.
Non è in gioco la credibilità delle campagne vaccinali, che la stessa Regione Lombardia porta avanti con l'appoggio di tutti, ma il diritto di un esponente politico, anche nel suo spazio personale e social, di non essere un burocrate senza opinioni. L'atto di sfiducia, sebbene avvenuto in Consiglio Regionale e con il voto segreto, ha le radici ben salde nella logica del linciaggio mediatico, dimostrando come la paura di essere etichettati e la pressione dei media e dei social network abbiano un peso maggiore della valutazione serena dell'operato politico.
L'Urgenza di un Segnale Politico Forte. Un ruolo alla Picchi per sanare la frattura causata dai franchi Tiratori
Il caso di Federica Picchi rappresenta una battaglia che va oltre la singola persona. È una battaglia per difendere uno spazio, pur sempre delicato, di autonomia di giudizio e di espressione. Quando una semplice storia su Instagram può causare la caduta di un politico, dovremmo chiederci: stiamo veramente governando o siamo tutti prigionieri della tirannia del like e della paura di non essere abbastanza "corretti"? La democrazia vive di confronto, non di epurazioni.
L'elemento più destabilizzante della sfiducia è il ruolo giocato dai franchi tiratori, i quali hanno operato un danno non solo all'assessore, ma alla stabilità e all'immagine della maggioranza di centrodestra in Regione Lombardia. È un atto di slealtà interna che non può restare impunito e, soprattutto, che non deve ricadere unicamente sulla vittima designata. È essenziale che i leader nazionali del centrodestra, intervengano con decisione per riconoscere il danno politico subito da Federica Picchi e per riaffermare il valore della sua posizione all'interno della coalizione. L'auspicio è che le figure di vertice si facciano carico di questa ingiustizia e che alla Picchi venga riconosciuto prontamente un nuovo ruolo di rilievo, che compensi il danno provocato dall'azione oscura e anonima dei "franchi tiratori" e che invii un segnale inequivocabile: il merito e la lealtà politica non possono essere sconfitti da velenose manovre interne.

