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Lega della Terra: ridisegnamo una nuova scenografia del paesaggio

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Quando si parla di agricoltura, si è portati a pensare esclusivamente al mondo legato all'attività agricola. In realtà il mondo dell'agricoltura è invece decisamente più vasto, e quando si parla di territorio, non si può prescindere da tutto ciò che risulta essere in sua difesa. La società di oggi, purtroppo, e a causa di motivi che non è mia intenzione affrontare in questa sede, ha perso gran parte di quel suo aspetto identitario che per secoli ha rappresentato il nostro orgoglio nazionalistico. Motivo per cui, non si può non prendere in considerazione, quell’unica materia che ha avuto il coraggio di prevedere una norma che ne salvaguardi l’esistenza. Sto parlando, ovviamente, di Urbanistica e più in generale di territorio. Ritengo che sia stato un errore fare, o tentare di fare, del paesaggio una scienza perchè non è interessante leggere l’ambiente o il territorio in termini scientifici, ma lo è in quanto contenitore di miti, sogni ed emozioni, in quanto accumulatore di metafore per capire le contraddizioni e i problemi del nostro tempo, e per queste sue qualità nel campo delle rappresentazioni e nel territorio dell’estetica diventa una componente necessaria per riprogettare il mondo in cui viviamo. Prima di altre discipline, la geografia e l’ecologia hanno cercato di appropriarsi e fagocitare il paesaggio, ma il risultato è stato di annullarne la proprietà più intrigante: il fatto di essere un “termine costitutivamente imprendibile, imbarazzante, scandaloso” che, al massimo, possiamo addomesticare come un’invenzione storica ed essenzialmente estetica. In qualche modo, certamente in maniera imperfetta, il paesaggio si materializza in quanto penetra, ispira e modifica il progetto territoriale. Si incorpora nella realtà come accade sempre anche ai sogni e alle utopie più trasgressivi e trascendenti la realtà. Questo è il senso del paesaggio nella società odierna, fluida e sfuggente, senza punti di riferimento. Questo è anche il suo valore “rivoluzionario”, che è grande, se è vero quanto ci dicono i sociologi: che abbiamo a che fare con una razionalità i cui attributi consistono nel non farsi imprigionare dal retaggio del proprio passato, nell’indossare la propria identità del momento così come s’indossa una camicia, che può essere prontamente sostituita quando diventa inutile o fuori moda. Dobbiamo domandarci attraverso quale arte, con quale mediazione artistica, oggi il paesaggio si presenti alla nostra attenzione. La sparizione del paesaggio-immagine nella pittura delle avanguardie è andata di pari passo col disfacimento del paesaggio a grandezza naturale sotto l’effetto congiunto della periurbanizzazione e del movimento moderno in architettura. La modernità, in altre parole, prima ha generato il paesaggio, poi lo ha ucciso con le sue mani! Ciò che dobbiamo reinventare oggi è «una scenografia del paesaggio con attori e non semplicemente con spettatori. Il paesaggio rurale che abbiamo perso per effetto della desertificazione delle campagne era un paesaggio di eventi della messa a coltura attraverso la vigna, il grano ecc. La storia delle campagne è una storia di eventi ben più importante di quella della città, ma noi l’abbiamo dimenticata». Il compito che oggi ci aspetta è riportare questo paesaggio di eventi non solo nelle campagne ma anche nelle periferie cittadine, affinché non riprendano a incendiarsi. Dunque, la capacità del paesaggio di commutarsi in ambiente e di tornare a vivere e radicarsi in una realtà fisica, urbana o rurale, non diminuisce ma dilata la responsabilità degli urbanisti. Entro questa cornice ho cercato anch’io, in quanto urbanista, di tracciarmi una strada, meglio sarebbe dire, un sentiero, sentendomi un esiliato non solo nella terra in cui vivo ma anche e soprattutto nella disciplina che pratico. Il mio principio-guida è stato che l’urbanistica, in quanto disciplina che studia il territorio antropizzato, non può non essere al contempo sapere utopico: l’utopia di una disciplina che pratica l’arte di una pianificazione democratica, dal basso. Il secondo principio è che pianificazione paesistica e pianificazione territoriale e ambientale debbano mantenere una ferma distinzione (pur nella necessaria convergenza dei processi di piano) proprio per poter attingere ai valori dell’ambiente e anche della territorialità. I valori della sicurezza e della sostenibilità ambientale, i valori etici o di equità spaziale e le prestazioni funzionali che un territorio deve garantire ai suoi abitanti e fruitori sono certamente importanti ma sono altra cosa rispetto ai valori paesistici, che passano attraverso la mediazione necessaria dell’arte e attraverso la capacità di dare senso al mondo: la capacità che oggi più ci manca per quella mancanza di valori che sono andato ormai perduti. Anch’io, con la mia incerta urbanistica che ha una sola certezza: negare la negazione dei luoghi, intendo proporre un percorso verso un paesaggio riconquistato dall’utopia conviviale. Attraverso queste mediazioni culturali, possiamo ritenere che la pianificazione paesistica, lungi dall’essere subordinata a quella territoriale e ambientale, la ricomprenda e possa costituire la via per rinsaldarne la scarsa legittimazione sociale di cui gode oggi la pianificazione urbanistica. E’ attraverso il paesaggio che possiamo ri-inventare il piano urbanistico come «racconto identitario», basato non solo sulla valorizzazione dell’ascolto e della memoria storica dei destinatari ma anche su nuovi processi di patrimonializzazione che riguardano ambiti tradizionalmente fuori della percezione paesaggistica come quelli del campo etno-botanico e dei prodotti locali che più direttamente coinvolgono il discorso che intende coniugare paesaggio e convivialità.

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