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Di Plinio e di buon vino: a Novara tra supervulcani, archeologia ed enologia

Andrea Cionci - autore dell'articolo pubblicato sul suo blog

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Fonte: https://www.liberoquotidiano.it/articolo_blog/blog/andrea-cionci/36832682/di-plinio-e-di-buon-vino-a-novara-tra-supervulcani-archeologia-ed-enologia.html

Di Plinio e di buon vino: a Novara tra supervulcani, archeologia ed enologia

 

08 settembre 2023

di Andrea Cionci

Novara. Nella splendida sala medievale dell’Arengo, ieri pomeriggio ha avuto luogo l’incontro “Di Plinio e di buon vino”, dedicato al bimillenario compleanno del filosofo, naturalista, scienziato (ed enologo) romano, nato a Como nel 23 d.C.

Fil rouge dell’incontro, due supervulcani: il Vesuvio che seppellì con le sue ceneri il grande romano, e quello della Valsesia che, esplodendo in ere geologiche lontane, (300 mln di anni fa) produsse quei particolarissimi terreni che, secondo Plinio, donavano ai vini del novarese un particolare gusto asprigno, “torvo” come li descrivesse.

Organizzatore e protagonista dell’incontro, presentato dal sindaco di Novara Alessandro Canelli ad almeno 200 partecipanti, il viticultore e distillatore Alessandro Francoli che ha raccontato come i vini del novarese fossero ben noti in epoca romana e rappresentassero un’eccezione rispetto ai vini diluiti ed edulcorati con miele che andavano per la maggiore.

L’autore Marco Scardigli e l’attore Roberto Sbaratto hanno selezionato e letto pagine fascinosissime dalla Naturalis Historia di Plinio, dedicati agli antichi procedimenti enologici.

Ma Alessandro Francoli è stato anche il finanziatore, cinque anni fa, insieme a Sofia Medrano, Ivan Pavlov e Giorgio Nicastro, di una ricerca scientifica promossa dallo scrivente su quella che è probabilmente l’unica reliquia esistente di uno dei più celebri personaggi dell’antica Roma, restituitaci proprio dall’eruzione del Vesuvio del 79 d.C.. Parliamo, appunto del presunto cranio di Plinio il Vecchio il quale, oltre al resto, fu un eroico ammiraglio: sacrificò la propria vita per salvare i suoi concittadini, divenendo così l’antenato più illustre e antico della protezione civile di tutto il mondo.

Questo reperto giace in una sala del Museo Storico dell’Arte sanitaria di Roma ed è stato rivalutato da un interessante volume pubblicato nel 2014, dallo Stato Maggiore della Difesa: “79 d.C rotta su Pompei. La prima operazione di protezione civile”, opera dell’ingegner Flavio Russo.

Gaio Plinio Secondo nacque a Como nel 23 (o 24) d.C., da una famiglia equestre. Educato a Roma, intraprese la carriera militare; fu ufficiale di cavalleria in Germania, ai tempi di Claudio; sotto Vespasiano, di cui fu amico, ebbe l’incarico di procuratore imperiale in varie province. Nel 79 d.C., anno dell’eruzione del Vesuvio e della tragedia di Pompei ed Ercolano, Plinio comandava, come prefetto, la flotta militare a Miseno. 

Fu suo nipote, Plinio il Giovane, a raccontarci la vita e la personalità di quest’uomo straordinario: integerrimo ufficiale, appassionato e infaticabile studioso, scrisse due ampie storie, una in due libri dedicata alle guerre dei Romani in Germania e l’altra, in 31 libri, sull’Impero. Scrisse ancora un manuale sulla formazione dell’oratore ma purtroppo queste opere sono andate perdute. L’unica superstite è l’amplissima Naturalis Historia, in 37 libri: l’opera abbraccia tutti gli aspetti del regno della natura (cosmologia, astronomia, geografia, etnografia, antropologia, zoologia, botanica, farmacologia e medicina, mineralogia, arti figurative). Tale testo costituisce una fonte preziosissima per gli studi archeologici, per la ricchezza di notizie sulla vita e le opere degli artisti antichi.

Il 24 Agosto del 79 d.C., dopo una quiescenza protrattasi per oltre cinquecento anni, il Vesuvio esplose, ricoprendo di ceneri e lapilli le piccole città insediate sulle sue fertili pendici. L’eruzione fu subito avvistata dalle vedette della base navale di Miseno dove la 1^ flotta imperiale era ormeggiata al comando di Plinio. Subito incuriosito dal fenomeno naturale, l’ammiraglio stava per imbarcarsi su di una veloce liburna, quando una disperata richiesta di aiuto gli giunse - tramite segnalazione, o colombo viaggiatore - da Rectina, una matrona romana, che, secondo alcuni studiosi, è da identificarsi con la vedova del senatore –  e ammiraglio -  Sesto Lucilio Basso.  Grazie a questo messaggio Plinio poté rendersi conto dell’emergenza che riguardava la popolazione e ordinò immediatamente un massiccio intervento di soccorso impiegando tutte le quadriremi disponibili Lo stesso ammiraglio si imbarcò su una di esse per coordinare personalmente le operazioni di soccorso e ordinò ai comandanti di dirigersi a tutta forza verso la costa di Ercolano e Pompei. Queste navi erano dotate di ponte piatto e avrebbero potuto caricare circa 200 persone ognuna; essendo dotate di propulsione a remi, sarebbero state le uniche imbarcazioni e poter raggiungere le spiagge dove si erano raccolti più di 2000 cittadini in fuga. Il vento forte che spingeva dal mare verso terra e il mare burrascoso avrebbe infatti impedito a qualsiasi  imbarcazione a vela di portare in salvo gli abitanti.

Nel frattempo, centinaia di persone, recando con sé gli ultimi averi,  si erano dirette verso la spiaggia, scrutando febbrilmente l’orizzonte nella speranza di veder comparire le navi della flotta. 

L’ammiraglio era sulla nave chiamata Fortuna e quando, prossimi alla meta, i lapilli cominciarono a grandinare sul ponte, al pilota, che gli chiedeva se non fosse il caso di cambiare rotta, Plinio rispose ironico: “La Fortuna aiuta i coraggiosi!”.

Le quadriremi, a causa dell’improvviso innalzamento del fondale provocato dal bradisisma, dovettero  ormeggiarsi ad alcune centinaia di metri dalla costa, a distanza di sicurezza, distribuendosi a ventaglio da Ercolano a Stabia, lasciando alle loro robuste e agili lance il compito di recuperare i fuggiaschi. Il trasbordo si attuò freneticamente, ma alcune ore dopo un’ondata di gas  velenoso, scaturita dal vulcano, raggiunse la spiaggia di Stabia, uccidendo tutti coloro che vi erano rimasti in attesa del loro turno d’imbarco. Fra questi vi era anche Plinio che stava gestendo di persona le operazioni di salvataggio.

Da quel momento, infatti, nessuno rivide più l’ammiraglio. Sulla sua sorte, non solo disponiamo delle lettere che il nipote Plinio il Giovane inviò a Tacito, ma anche dei ritrovamenti archeologici risalenti agli inizi del secolo scorso, da cui proviene il cranio, che hanno fornito preziose informazioni sulle ultime ore del grande romano.

Fu l’ingegnere napoletano Gennaro Matrone che, ai primi del ‘900, condusse scavi alla foce del Sarno dai quali vennero alla luce 73 scheletri, i corpi di un gruppo di pompeiani  che erano rimasti uccisi in attesa dei soccorsi. 

Tra gli scheletri rinvenuti ve n’era uno molto particolare, isolato dagli altri, che indossava numerosi e ricchi gioielli d’oro. Bracciali a forma di serpente, armille, una collana d’oro composta da ben 75 maglie,  anelli, tra cui uno con due teste di leone affrontate e un gladio dall’elsa d’avorio preziosamente ornata da  alcune conchiglie d’oro.

Matrone, fin da subito, ventilò alle autorità che potesse trattarsi dello scheletro di Plinio, ma non fu preso sul serio. Pareva poco credibile che un ammiraglio romano potesse mostrarsi addobbato come “una ballerina da avanspettacolo”. Purtroppo, data la mancanza di leggi di tutela, i reperti di maggior valore furono venduti da Matrone forse ai Rotschild, o ad altri ricchi collezionisti stranieri. L’ingegnere napoletano, tuttavia,  conservò il teschio di quello scheletro riccamente ingioiellato.

La cosa più interessante è che in tempi recenti, gli studi archeologici hanno identificato nel tipo di ornamenti aurei indossati dallo scheletro, e soprattutto nel suo gladio tempestato di conchiglie dorate, proprio gli emblemi di onorificenze e alte cariche militari - in special modo marittime -  in uso fin dall’epoca di Augusto. L’anello con le teste di leone era, peraltro, uno “chevalier” tipico della classe equestre, il ceto dal quale proveniva, appunto, Plinio.

Ciò che appare plausibile è che quindi il cranio appartenga davvero Plinio, il quale,  prima di intervenire in soccorso della popolazione, aveva forse indossato le insegne della sua autorità per meglio gestire l’operazione.

“Per esclusione, vi sono buoni indizi – spiega lo studioso Flavio Russo – che il reperto appartenga al grande storico romano. Del resto, Plinio era cavaliere ed ammiraglio, e addosso allo scheletro sono stati trovati gioielli relativi a entrambi gli status.  Il corpo è stato trovato sulla spiaggia di Stabia, e il soggetto è morto sicuramente durante le operazioni di salvataggio dei pompeiani via mare, così come riferiva il nipote Plinio il Giovane”.

Tuttavia, la tecnologia offre, oggi, la possibilità di un esame della dentatura che porterebbe nuovi importanti indizi. Nei primi anni di vita di una persona, infatti, gli isotopi radioattivi contenuti nell’acqua da bere si depositano nei denti. Dato che Plinio era nato a Como, sarebbe bastato verificare che gli isotopi contenuti nei denti del cranio corrispondano a quelli delle acque che scorrono ai piedi delle Alpi.

Lo scrivente, ha così coagulato, nel 2017, un gruppo di finanziatori e di scienziati, con varie competenze specifiche, per rimettere al centro degli studi il reperto.  I vertici dell’Accademia di Arte sanitaria, prestigiosa e secolare istituzione che ha in consegna il cranio, presieduta dal Prof. Gianni Iacovelli, hanno aderito entusiasticamente al progetto.

L’obiettivo era quello di far eseguire un esame isotopico sui denti per verificare dove il soggetto avesse trascorso l’infanzia. (Infatti, le acque possiedono isotopi diversi a seconda della regione e questi atomi restano imprigionati nello smalto dei denti alla dentizione permanente). La notizia fa il giro del mondo e alcuni sponsor privati rispondono all’appello. Presidente e Conservatore dell’Accademia di Arte Sanitaria, avendo in custodia il reperto, accettano la proposta di chi scrive volta a coinvolgere e coordinare ricercatori di alto profilo; si costituisce la onlus “Theriaca” per acquisire i fondi e vengono condotti diversi esami.

Il primo è quello isotopico sui denti della mandibola (il cranio è privo di mascella superiore) condotto da Mauro Brilli, geochimico dell’IGAG-CNR. I risultati sono entusiasmanti: il soggetto, all’età di sei-sette anni,  avrebbe potuto trovarsi (almeno in Italia)  in un’area tra Appennino centrale e Pianura Padana comprendente anche Como, città natale di Plinio! Presto però arriva la doccia fredda: l’esame circa l’età di morte del soggetto, condotta sugli stessi denti da Roberto Cameriere, docente di Medicina Legale a Macerata, riporta un risultato impietoso: 37 anni. Non può essere quindi Plinio, morto a 56. Il pool di ricercatori vive un momento di sconforto, quando, a sorpresa, arriva il colpo di scena: l’antropologo fisico Luciano Fattore intuisce che la mandibola potrebbe essere “incoerente” con il cranio, ovvero appartenere a un altro soggetto. Si coinvolge così David Caramelli, direttore del dipartimento di Biologia all’Università di Firenze che, insieme ad Alessandra Modi, esegue l’esame del DNA antico sui due reperti ossei.

Arriva la conferma: sono due uomini diversi. Dato che la calotta cranica dell’ammiraglio era priva del massiccio facciale, evidentemente il Matrone aveva ricomposto il teschio prendendo “in prestito” la mandibola da un altro individuo, un 37enne, appunto.  L’aplogruppo (varianti genetiche relative a una regione) individuato da Caramelli viene poi studiato da Teresa Rinaldi, biologa de “La Sapienza”: la calotta, secondo il DNA mitocondriale risulta compatibile con un cittadino romano-italico. La mandibola potrebbe essere riconducibile anche alla fascia nordafricana, soprattutto alla Numidia (Algeria centro orientale). Chissà: forse si tratta proprio di quel nero altissimo che era stato individuato nello scavo accanto al corpo del presunto Plinio. Lecito supporre che un comandante del suo rango potesse avere uno schiavo-guardia del corpo così imponente (come lo erano i numidi), tanto più che un terzo dei marinai romani erano africani. Tuttavia, l’esame isotopico sui denti nega la provenienza africana. Forse un nero di seconda generazione, cresciuto in Italia? Possibile: gli schiavi potevano riprodursi anche “in cattività”. Ma sono supposizioni: ciò che conta è la calotta e Luciano Fattore vi conduce un esame sulle suture craniche che si rivela molto promettente: l’età alla morte stimata per la volta è di circa 45,2 anni, ± 12,6 anni (resta quindi plausibile fino ai 57,8) mentre per il sistema latero-anteriore è di circa 56,2, ± 8,5 anni. In questo caso, il valore centrale corrisponde curiosamente all’età di morte di Plinio.

In archeologia non si può mai essere sicuri di nulla, ma a questo punto occorre mettere insieme i vari elementi del puzzle. Oltre alla posizione “dormiente” descritta dal Giovane in cui fu trovato lo scheletro e alla credibile età di morte per la calotta, il soggetto possedeva un parazonio, una sorta di gladio preziosissimo che veniva donato solo a pochi tribuni di rango supremo. Questo era adornato con conchiglie e molluschi d’oro, ovvio pensare che fosse destinato a un ammiraglio. Alle dita della mano destra, Matrone rinvenne un grosso anello aureo, preciso distintivo del ceto equestre cui apparteneva Plinio.  Al collo, una pesante collana d’oro e alle braccia armille auree con teste di vipera affrontate. Entrambe si donavano a militari distintisi per “segnalate imprese” e Plinio aveva alle spalle una gloriosa carriera militare. Senza calcolare che la vipera bicefala era una prerogativa di Agrippina e dei suoi protetti, fra i quali, appunto, Plinio. A questo si aggiunga il fatto che 40 anni prima, in un terreno accanto a quello del Matrone era stata rinvenuta una navis romana, carica di preziosi: una delle due con cui Pomponiano sperava di salvare i suoi tesori?

Quante possibilità vi sono, dunque, che tale ammiraglio romano non fosse Plinio? Quante possibilità ci sono che un altissimo ammiraglio romano, cavaliere, con un prezioso e raro parazonio, di circa 56 anni, si trovasse sulla spiaggia di Stabia per trovarvi la morte durante la storica eruzione del Vesuvio? Ognuno tragga le proprie conclusioni. Una sola cosa è assolutamente certa: fino allo stato attuale degli studi nessun indizio palesemente contrario è emerso per negare che quella calotta cranica appartenga veramente al grande personaggio.

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