Il nuovo studio: le Navi di Nemi distrutte dagli americani, non dai tedeschi
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20 giugno 2023
- di Andrea Cionci
Era la notte del 31 maggio 1944: andavano a fuoco le famose Navi di Nemi, due navi imperiali romane attribuibili a Caligola, affondate sul fondo del lago di Nemi, recuperate in una impresa archeologica condotta sotto il Fascismo dal 1928 al ‘32.
I preziosi reperti erano stati messi al riparo da una costruzione dell’architetto Morpurgo, lo stesso dell’Ara Pacis. In modo quasi automatico, la colpa dell’immane disastro fu data ai tedeschi, ma oggi il volume “L’incendio delle navi di Nemi. Indagine su un cold case della Seconda guerra mondiale (Passamonti 2023, pp. 490, ill.)” ribalta su base documentale la solita versione “accomodata” a interessi ideologici.
Gli autori sono l’archeologo Flavio Altamura, e lo storico Stefano Paolucci, nativi dei Colli Albani ed esperti della storia del territorio, entrambi con numerose ricerche e pubblicazioni scientifiche al loro attivo, sia a livello nazionale che internazionale. Abbiamo chiesto a Paolucci di riassumere l’indagine.
Quale vulgata si è affermata fino a oggi sull’incendio di Nemi?
Nel luglio 1944, una commissione d’inchiesta avallata dagli Alleati stabilì che l’incendio era «con ogni verisimiglianza» un atto vandalico dei militari tedeschi che avevano piazzato una batteria di cannoni vicino al museo. Questa la verità ufficiale, già in origine priva di reali certezze. Il che ha portato, nel tempo, alla nascita di varie teorie alternative che, ad esempio, imputavano la colpa agli sfollati ricoverati nel museo, o addirittura ai partigiani. La nostra analisi, fondata su un’ampia documentazione inedita ha, non solo confutato tutte quelle versioni alternative, ma ha evidenziato insormontabili criticità nella stessa versione ufficiale, al punto da farci mettere in serio dubbio la colpevolezza tedesca e infine escluderla.
E perché non potevano essere stati i tedeschi a bruciare le navi?
Il problema è che le effettive prove a loro carico erano praticamente inesistenti: basti pensare che la commissione non riuscì nemmeno a indicare in che modo i soldati avessero appiccato il rogo. Un tipico esempio di “evidenza negativa”. In sostanza, infatti, le accuse ai tedeschi derivavano perlopiù dalle testimonianze dei custodi e da una serie di deduzioni: ma analizzandole a fondo e alla luce di nuovi documenti, le prime si sono rivelate estremamente inattendibili o contraddittorie e le seconde sono risultate tutte infondate o fallaci.
A chi va attribuita, allora, la responsabilità?
Secondo la nostra ricostruzione, e andando anche per esclusione, a innescare il rogo sono state probabilmente alcune granate dell’artiglieria americana che erano indirizzate verso la batteria tedesca. La sera dell’incendio almeno quattro ordigni centrarono il museo, e tutti i documenti e i dati da noi analizzati fanno ragionevolmente ritenere che gli effetti e i prodotti generati dalle loro esplosioni attraverso il tetto possano aver facilmente appiccato il fuoco alle navi. Tutto punta in quella direzione, in una sorprendente convergenza di prove a sostegno. E forse non è una combinazione che gli inquirenti si affrettarono prima a minimizzare le potenzialità incendiarie delle granate e poi a escluderle con argomentazioni rivelatesi, anche in quel caso, del tutto fallaci. Del resto, un incidente così catastrofico, per quanto involontario, sarebbe stato difficile da ammettere di fronte agli Alleati. Più facile incolpare i tedeschi.
Avete ricevuto attacchi per questa “operazione verità”?
Ci aspettavamo delle polemiche, ma finora non ci sono state. Molti appassionati e studiosi, anche del mondo accademico, hanno anzi apprezzato il rigore scientifico della nostra indagine e ne hanno condiviso a pieno i risultati. Proprio in questi giorni consegneremo un articolo per una rivista accademica dell’Università di Venezia. A parte qualche critica a priori dei soliti “incorreggibili” aggrappati alle proprie convinzioni, anche se smentite dai fatti, abbiamo ricevuto solo ringraziamenti per aver dedicato tanti anni e tante energie alla riapertura – e forse chiusura – di questo cold case.
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