Scrivere di migranti e immigrazione non è mai facile. Si rischia sempre di scivolare nell'analisi dei pro e dei contro, dei se e dei ma, dei giudizi di valore o dei sentito dire. E tra l'altro, ormai si è detto tutto: si sono analizzate leggi e decreti, si sono confrontate le diverse scelte politiche, si sono fatti calcoli e statistiche. E con tutto questo parlare, ci si aspetterebbe uno sguardo consapevole della comunità verso queste persone, che se in teoria saltano all'occhio (per ovvi motivi), in pratica vengono spesso dimenticate.
Se si chiede ad un cittadino che ha letto tutto ciò che c'è da sapere sull'immigrazione di descrivere un migrante, solitamente penserà all'africano che più nero non si può, con le ciabatte ai piedi e il cappellino con il ponpon, che chiede le elemosina fuori al supermercato. Potrebbe anche non esimersi dal dare un suo giudizio sulla questione, che può oscillare tra il più becero razzismo e la peggiore pietà buonista (che è un'altra forma di razzismo, a ben vedere).
Non mi sembra giusto però accusare le persone di essere pregiudizievoli. Questo perché il pregiudizio non è altro che un meccanismo che il cervello usa per semplificarci la vita. Il pregiudizio è insito nell'essere umano; ci permette di ricordare quattro o cinque concetti base di una popolazione (se parliamo di migranti) e sì, può essere basato su dei concetti sbagliati, ma l'errore è spesso il preludio della conoscenza. Solo con la conoscenza si smette di essere pregiudizievoli. E non parlo della conoscenza di decreti, leggi e scelte politiche, e nemmeno di conoscenza di storie "di vita" lette sul giornale. Parlo di conoscenza di persone. Parlo di condivisione.
Ho iniziato a lavorare con i migranti nel 2019, grazie al mio tirocinio in psicologia presso un CAS di Turrivalignani, un paesino minuscolo in provincia di Chieti. All'epoca non prendevo i pregiudizi con filosofia come adesso, e mi sorpresi nello scoprire di averne qualcuno. Ci è voluto poco, però, perché iniziassi a vedere gli ospiti del CAS per quello che erano: persone, con vissuti e inclinazioni diverse. E così ho riconosciuto quelli di cui potersi fidare da quelli da guardare con sospetto, gli onesti dai disonesti, i solitari, gli estroversi, i furbi e gli ingenui. I vari stili umani, i topoi (se vogliamo usare un grecismo) della personalità ; e sono gli stessi che vediamo nelle persone che ci circondano, e non hanno cultura. Anche le emozioni non hanno cultura. E di conseguenza, nemmeno la risposta al trauma.
Certo, ogni cultura ha il suo modo di esorcizzare il trauma, ma ciò che c'è sotto, nell'inconscio (o sottosoglia, se vogliamo usare un termine moderno) è lo stesso: smarrimento, solitudine, paura, negazione, frattura. A volte dissociazione.
Alcune persone con cui ho parlato pensano che la parte difficile del viaggio sia solo quella del barcone in mare. Mi piacerebbe pensare che sia solo quel ricordo che tiene un migrante sveglio la notte, ma le storie che ho sentito non lasciano spazio a dubbi: il barcone è solo l'ultima tappa.
Queste persone sbarcano senza documenti e senza scarpe, apparentemente senza bagaglio. Ma in realtà sulle spalle ne hanno uno bello grosso. Spesso hanno la responsabilità di dover mandare soldi alla famiglia lasciata indietro, quindi cercano il prima possibile di svicolarsi dalle maglie del sistema di accoglienza per trovare un lavoro da schiavo (perché non è altro che una nuova schiavitù) da 1 euro e 50 all'ora nei campi di pomodori. A volte scappano da un destino infausto, da minacce di morte e persecuzione, da ricatti e violenza.
In Italia gli viene detto che adesso sono al sicuro, ma che devono avere pazienza perché possano iniziare una vita autonoma. Con il tempo, la scarica di adrenalina svanisce, lo stress accumulato nel viaggio scompare; iniziano ad adattarsi. Ed è allora che il trauma bussa alla porta: fino ad allora è rimasto quieto dietro l'istinto di sopravvivenza, ma appena la guardia si abbassa iniziano le notti insonni, le allucinazioni, gli attacchi di panico. Abbiamo assistito anche a malattie psicosomatiche, come rash cutanei senza nessun motivo apparente, tic nervosi, gonfiori, pruriti.
Questo è un argomento che non può esaurirsi in poche righe. Forse però il punto a cui vorrei arrivare è questo: il migrante non ha il lieto fine appena mette piede in Italia. Quando si parla di migrazione in tv, non sento mai parlare del fatto che i CAS trasudano frustrazione e rabbia, a causa delle lungaggini del sistema di accoglienza, che prevede una attesa a volte di anni prima di ottenere un appuntamento in commissione territoriale. Non sento mai parlare dei dinieghi, dei ricorsi, dei rimpatri (a meno che non serva al politico di turno). Si sorvola anche sugli strascichi del trauma, sulle credenze magiche, sul shock culturale. Sul fatto che la vita psichica dei migranti sia congelata: troppo stanchi di guardare indietro, troppo spaventati per guardare avanti.
Certo, sicuramente sarebbe più facile creare occasioni di scambio e integrazione culturale se i vari CAS di accoglienza assegnati alle cooperative dalle prefetture non si trovassero spesso e volentieri in piena campagna, o in cima alle montagne. D'altra parte io sono una idealista, e spero anche che un giorno si smetterà di migrare per necessità . Dovrebbe essere solo la voglia di viaggio e di conoscenza del mondo a spingere le persone a muoversi, e non la povertà , la fame e la guerra. Sarebbe bello vedere i giovani africani lavorare come lavapiatti nei ristoranti italiani, e non perché devono mandare i soldi alle famiglie, ma per pagarsi un ostello e il biglietto del treno, per andare a Firenze a visitare Palazzo Vecchio.
In fondo, come diceva Pablo Cohelo, "il viaggio non è mai questione di soldi, ma di coraggio".
E loro, di coraggio, ne hanno da vendere.