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Gianluca Ramazzotti si racconta ai tempi del Coronavirus

L'artista e produttore ci svela il suo progetti per il futuro dopo la Pandemia

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Salve signor Ramazzotti, oltre ad essere attore, lei è anche un produttore. Immagino che l’emergenza Coronavirus l’abbia costretto a rinviare alcuni spettacoli… “Sì, prima che tutto si interrompesse, stavamo portando in scena Se Devi Dire Una Bugia Dilla Grossa e Sherlock Holmes con Giorgio Lupano e Rocio Munoz Morales. Eravamo in pieno svolgimento, ma abbiamo dovuto sospendere. Dovevamo fare una bellissima tournee, ma non è stato possibile. Abbiamo dovuto spostare tutto quanto”. Spera di tornare sul palco quanto prima? “Tutti effettivamente parlano di un prossimo ritorno in scena, mentre io non ho tutta questa voglia urgente. C’è sicuramente il desiderio di ricominciare, ma bisogna prima avere la massima sicurezza. E’ molto più importante avere la sicurezza della salute, piuttosto che la voglia personale di ritornare in scena. Bisogna capire, prima di tutto, come si riprenderà, perché il nostro mestiere non è come quello di un operaio o di un addetto ad uno sportello pubblico, che può avere determinati tipi di accorgimenti. Per noi attori è molto complicato stabilire come poter ripartire in un’asse temporale breve. Per quanto riguarda il teatro e le arti in genere, per una compagnia o per una struttura teatrale ci sono dei costi talmente alti ed è difficoltoso mettere in pratica un contingentamento del pubblico ed un distanziamento degli artisti in scena. Credo sia inevitabile che noi saremo gli ultimi a ripartire: creiamo aggregazione. Capisco gli appelli dei colleghi e così via, ma bisogna mettersi nei panni di una persona che fa questo mestiere. Il teatro ha dei costi…”. Beh, ovviamente. Ci sono dei costi da sostenere. Anche questo è un problema per il periodo che stiamo vivendo… “Ad esempio, è facile per i teatri nazionali dire che sono pronte a ripartire, a mettere venti persone dentro. Per loro è più semplice; anche se perdono i soldi, gli stessi gli vengono garantiti dallo Stato. Le strutture private, che hanno poche sovvenzioni, purtroppo devono contare sui biglietti che vengono venduti. Se da noi il pubblico non entra, o comunque ci sono dei problemi che ne limitano l’afflusso, è un problema grosso. Se in un teatro da 800 posti possono entrare soltanto 300 persone, il problema è evidente. Nessuno rientra nei costi, né la compagnia e né il teatro. Anche se è una materia che, per ora, il Presidente del Consiglio non vuole toccare, prima o poi bisognerà farlo. Purtroppo, esistono delle strutture che non hanno la capacità per ripartire in sicurezza assoluta. Se io ho un ufficio e dieci scrivanie, metto il plexiglas alle dieci scrivanie. Faccio poi lavorare quattro persone a turno, mentre le altre le faccio lavorare da casa. In teatro però, lo capisce da solo, questo non si può fare. A livello di live e intrattenimento non è fattibile”. Tra l’altro, dato che ne abbiamo già parlato in precedenza, mettere in sicurezza un teatro ha anche i suoi costi. E’ corretto? “Ovviamente. Sicuramente le persone dovrebbero entrare con le mascherine e i guanti. Si immagini una poltrona, che una sera viene occupata da una persona che dev’essere sana. In questo caso, bisogna prima stabilire se effettivamente è sana, magari misurandole la temperatura corporea. Chi paga quindi le persone che stanno a misurare le temperature? Chi paga il termoscanner? Chi paga la sanificazione con l’azoto liquido dopo che il pubblico è uscito? Chi sanifica il palcoscenico? Un attore può certamente sanificare il proprio camerino, magari utilizzando un po’ di amuchina, ma questo non basta”. Tra l’altro il teatro, tecnicamente parlando, non può nemmeno attuare determinati accorgimenti… “Esatto. Il teatro è fatto di ‘sputi in faccia’. L’attore si sputa costantemente in faccia. Io posso anche definire chi va in scena attraverso la misurazione del sangue e stabilire che quell’attore, negli ultimi 15 giorni, non ha contratto il virus, oppure ha sviluppato gli anticorpi. Ma se durante la tournee si ammala, che succede? Non abbiamo i cover, non siamo come in America o in Germania dove gli attori hanno i sostituti. Lavoriamo sine die ognuno col proprio personaggio. Se uno si ammala la compagnia si ferma, mette tutti in quarantena per 15 giorni e si ferma. Le regole sono assolutamente strane da poter attivare. Ci vuole pazienza, come società bisogna cercare di non fallire”. Lei produce anche i suoi spettacoli. Come sta vivendo, da produttore, questa situazione? “Sì, ed ho serie difficoltà. Le stesse c’erano anche prima, ma adesso ne ho di più. Lo Stato deve intervenire ad aiutare gli artisti, che non hanno alcuno strumento per essere garantiti. Grazie allo Stato ho potuto mettere undici unità in cassa integrazione. Gli altri hanno preso invece il bonus da 600 euro. Questa è già una sorta di garanzia, anche se piccola, che fino a dicembre non esisteva. Mi auguro che, dopo il Covid-19, queste garanzie si mantengano, che un’artista possa essere tutelato. Dobbiamo però anche essere tutelati noi produttori: io non ho il Ministero. Due anni fa me l’avevano offerto, ma la cifra era talmente esigua che, rispetto ai numeri che faccio, non mi conveniva. Ho rinunciato, ovviamente a quella cifra là. Se mi avessero dato il triplo di quello che mi avevano proposto, come hanno molti dei miei colleghi produttori, avrei accettato. Io mi trovo senza Ministero e solo col pubblico, quindi è un grave danno. Sarà molto difficile rimanere in piedi fino gennaio”. Gennaio 2021? Quindi lei non prevede di tornare in scena per ottobre o novembre? “No, io penso si partirà da gennaio. Non credo che i teatri possano ripartire in sicurezza ad ottobre e novembre. E’ più probabile che esca un vaccino e i teatri possano riprendere, con fatica, a gennaio e febbraio. Solo col vaccino la gente potrà riprendere a vivere tranquillamente, andare al mare o a teatro per divertirsi in tutta tranquillità”. Quando si parla del teatro o del mondo dell’arte in generale si ha spesso la sensazione che non venga tutelato abbastanza. Con questa emergenza credo sia emerso ancora di più… “Noi artisti spesso non veniamo considerati come persone che fanno un mestiere. Prima di tutto bisogna dire che questo è un mestiere. Al di là di quanDo potremo riaprire, e sottolineo che possiamo farlo anche per ultimi, è necessario far comprendere che questo è un mestiere. Come esistono i carpentieri, i bottegai, i fruttivendoli, ci sono anche gli attori e i produttori. Io, Gianluca Ramazzotti, non produco the o caffè, ma intrattenimento. La scatola dei sogni che permette al pubblico di vedere quello che può essere un film, una fiction, uno spettacolo dal vivo, un concerto. Il fatto che a noi artisti piaccia il nostro mestiere, non vuole assolutamente dire che non sia un mestiere. Anche se mi piace andare a lavorare, non posso farlo gratis. E’ questo il punto fermo. Questo pensiero deve pervadere sia lo stato, sia il pubblico che ci segue. Una volta che si capisce questo, probabilmente si riuscirà a riprendere con maggiori sicurezze, anche a livello economico”. Accanto agli artisti ci sono poi tutti quei settori secondi, le cosiddette maestranze, che in questo periodo non stanno lavorando. Spesso non si pensa nemmeno a loro. “Sì, sono tutti fermi. Io ho 16 persone su Sherlock Holmes, 16 persone su Se Devi Dire Una Bugia Dilla Grossa e, tra ufficio e così via, altre 4 persone. Ho quasi 40 persone che stanno ferme. Se si prendono tutte le altre produzioni, che hanno da un minimo di 20 ad un massimo di 60/80 unità, è impossibile non pensare al danno grosso, alla voragine che si viene a creare. Sono stati bruciati milioni di milioni di euro. Adesso stiamo cercando tutti di ripartire da gennaio in poi, di mettere spettacoli da quella data lì. Bisogna riprogrammare”. Riprogrammare… ma in che modo? “Sì, il futuro del nostro mestiere è la programmazione. Attualmente nei siti dei teatri e delle compagnie si trova il “semaforo rosso”. L’avviso che informa del fatto che, per via del Covid-19, tutti gli spettacoli sono sospesi o rimandati a data da destinarsi. Se invece lasciamo intendere on line che c’è lo spiraglio di tornare ad una normalità, riprogrammando gli spettacoli da gennaio in poi, questo ci dà la possibilità di esserci. Se poi non si potrà tornare nemmeno a gennaio, si dovrà riprogrammare ancora. Non dobbiamo soltanto lamentarci, ma riprogrammare una circuitazione degli spettacoli, dei soldi. Perché noi attori, quando facciamo una tournee, contribuiamo anche per incrementare una parte del PIL nazionale, visto che mangiamo nei ristoranti, dormiamo negli alberghi o nei bed& breakfast. Aiutiamo l’indotto a crescere. Se riprogrammiamo i teatri in questo momento di grande incertezza è un modo per dare a noi e al pubblico una chance. Adesso non c’è più niente, nemmeno nelle intenzioni. Bisogna, in qualche maniera, essere pronti ad affrontare la riapertura già da adesso, con le programmazioni. In seguito, si vedrà come, ma intanto programmiamo. Io cerco di dire questo a voce alta ai miei colleghi. Diamo un segnale che il teatro esiste e c’è, che siamo pronti a ripartire con le precauzioni che vanno intensificate. Con la mano sinistra si riprogramma, con la mano destra si cerca di mettere tutto in sicurezza. Certamente non sarà facilissimo… “Non sarà facile, anche perché il nostro mestiere è particolare. Non si può fare il teatro dal vivo, ma ci vuole qualcuno con una mentalità che conosce il sistema, non con quella di uno scienziato che vive il nostro mondo da spettatore. Ci vuole una circostanza molto approfondita, perché non è facile identificare quali possono essere i provvedimenti di sanificazione e di distanziamento anche per gli artisti in scena”.

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