I prodotti delle università italiane colonizzano il mondo.
Ma difficilmente tornano nella madrepatria. Anzi, quasi mai. I laureati che scelgono di andarsene dal nostro Paese, nella stragrande maggioranza acquistano un biglietto di sola andata. Per dirla in modo crudamente (e crudelmente) statistico, per ogni terna di laureati ce n’è soltanto uno che si lascia prendere dalla nostalgia e torna. Lo certifica l’Istat, nel rapporto sul Benessere equo e sostenibile (BES) relativo ai dati del 2016, In esso si legge, tra l’altro: “Nel 2016 circa sedicimila laureati italiani di età compresa tra i venticinque e i trentanove anni hanno lasciato il Paese e poco più di cinquemila sono rientrati.”
Intanto l’Ocse (Organizzazione per la coppe razione e lo sviluppo economico) focalizza la propria attenzione sui deficit strutturali della formazione professionale italiana. E nel suo rapporto sulle competenze non esita a usare la bacchetta: in molti casi in Italia, si legge nel testo dl rapporto, “i titoli di studio e le qualifiche danno un’indicazione molto debole delle reali competenze e stabilità degli studenti e lavoratori”- Il 35% delle persone fa un lavoro non in linea con gli studi svolti.
Più nel dettaglio, il 6% circa dei lavoratori denuncia competenze insufficienti, mentre il 18% è sotto-qualificato (nelle “quote utili e virtuose” c’è invece un 11,7% di persone che presentano competenze ad alti livelli e un’elite, quantificata al 21%, di lavoratori ultra-qualificati). Di conseguenza, il Paese ha un’estrema necessità “di rafforzare l’efficacia dei percorsi di formazione tecnica e professionale”.
Non agire in modo deciso nella direzione di restituire alla formazione il suo ruolo di perno nel mercato del lavoro significherebbe continuare a sottostare a quel vero e proprio Far West in cui spadroneggiano incontrastate le reti familiari e di conoscenza personale, che consentono a chi ha la fortuna di possederle di approfittare di opportunità interessanti a discapito di chi non ne ha.